Dizionario del buon senso: una prefazione Per dirla subito e chiara: sfuggo, se appena possibile, alla pratica di quel faticoso – e rischioso – genere letterario che chiamano “prefazione”. Innanzitutto, perché richiede la lettura di un libro che spesso non hai voglia di leggere, almeno in quel momento. Quelli della mia generazione sono stati formati – e deformati – da certe brossure tascabili, con in copertina un fascinoso acquerello, l’indice degli articoli e la testata: Selezione dal Reader’s Digest. Un capolavoro mai riuscito ad altri, almeno in quelle dimensioni planetarie. Farcela, cioè, a riempire barche di soldi, vendendo a caro prezzo fascicoli di propaganda ben confezionata ma per niente dissimulata. Se tanti si sono convinti che non ci fosse salvezza se non nell’imitare, da provinciali poveri, l’american way of life, lo si deve anche a quelle pagine. I tedeschi, durante la guerra, avevano Signal: al di là dei contenuti, un capolavoro di tecnica redazionale, di impaginazione,