7 Agosto 2006
«C’è un orecchio che non sente là dove sono le solitarie ragioni d’Israele»
Ancora un ringhio dal buio. Ahmadinejad. L’altro giorno l’orco con la giacchetta ha detto che la soluzione è la distruzione di Israele. E’ lui il nostro partner per la pace. Ringhia – e molti non sentono. Allora siamo qui a parlare di sordità. C’è una costante disparità di udito verso la Storia ebraica, non sentita quella, sentita quella di chiunque altro. E risuona forte la sproporzione della condanna ecumenica della violenza e questo inudito, continuo ringhio nell’aria. Tutti potremmo sentirlo. Eppure molti orecchi non sentono la limpidezza malefica, questa cristallina purezza alla rovescia: “L’unica soluzione è la distruzione d’Israele”. Il male ha l’astuzia per regnare. C’è un orecchio che non funziona, là dove risuonano le solitarie ragioni d’Israele. Allora mi ricordo. Quasi nessuno degli amici di un tempo, ragazzi con me nella sinistra dei primi anni 70, al Manifesto, ai concerti jazz che organizzavamo, con Don Cherry e Antony Braxton, ragazzi con cui inventavamo i locali underground e la satira ruggente – nessuno di loro chiede, o ha mai chiesto, notizie dei miei fratelli e dei miei nipoti, dei miei vecchi quando ancora c’erano, a Haifa e a Gerusalemme. C’è questo orecchio che non sente il rumore degli scoppi in Israele – un problema di sentire, che è anche dei sentimenti. Eppure i ragazzi del rock, del Manifesto, dell’underground, della satira stavano in ascolto atterrito ai racconti su mio padre in fuga dal fascismo, su mio padre che dai partigiani riceve il messaggio della madre deportata, scritto su pezzo di tela con un chiodo intinto nel sangue e lanciato sulla ferrovia da un vagone bestiame. “Figlio mio, addio. Mamma”. Una volta, complice Firenze ai nostri piedi, e l’infilata di ponti sull’Arno, ebbi il coraggio di dire tutto lo strazio a quelli del rock e della sinistra. Piangemmo insieme. Ma c’era l’orecchio che anche allora non voleva sentire. Quello situato proprio dalla parte dove si trova Gerusalemme. Mio padre e mia madre, i miei fratelli, se n’erano appena andati in Israele, e nessuno di loro mi chiedeva del presente: d’Israele. C’erano solo domande sulla Seconda guerra mondiale. I fascisti, i partigiani e i tedeschi, e che la mia famiglia abitasse in Israele era tra le pieghe dei fatti, o forse sotto a pieghe che io stesso provvedevo a piegare, una sull’altra. Per coprire questa enorme, indecorosa ingiustizia che la mia famiglia era andata “là”. E quando a volte la parola veniva detta, Israele, voleva dire che c’era stata una momentanea uscita dalla sordità per loro, e da una quotidiana solitudine per me. Dicevano Israele ed era come se qualcuno a un tratto alzasse il coperchio della botola in fondo alla quale io abitavo, in qualche profondità ventrale della terra, dove era ricoverata la vergogna sionista. Assurdi Ebrei, in piedi in una propria patria. La botola si apriva e mi raggiungeva una ventata d’aria buona, la normale luce del giorno. Come se anche io potessi approdare, per un breve sollievo concesso, alle possibilità della vita. Succedeva che anche io avevo un presente, e non solo il passato. Non solo la Shoah, ma addirittura Israele. Esisteva la mia famiglia, i miei fratelli, e questo padre dipinto dagli amici comunisti come un dentista tiranno che era andato a Haifa. E per un momento, complice qualche bicchiere di vino e una panchina su Firenze, si scioglievano le lingue. Una specie di risolino nervoso affiorava sulle loro labbra e i miei amici, e davvero eravamo amici, e poi davvero di sinistra, mi chiedevano turbati di questa nazione dall’altra parte del mare. Volevano sapere perché la mia famiglia viveva in Israele. E per una sera non sordi, mi chiedevano: “Ma com’è, lì?”. Non dicevano Israele, dicevano “lì”. Pareva di essere interrogato su come fosse possibile violare la legge di gravità e abitare in un pianeta sospeso sul niente e venuto dal niente. “Lì”, uno stato senza nome, a volte chiamato con malizia Palestina. Come se non fossimo nel ’75, ma nell’anno 20 d. C. e per un puro caso non conversassimo in latino. “Si dice Israele”, dissi una volta. “Via – mi fu risposto – Palestina, Israele, è la stessa”. Israele era un posto dalla incongrua esistenza storica. Nessuno di questi miei amici, ognuno colmo di Marx, di Gramsci e di Marcuse, sapeva ricollegare Israele alla Shoah e a venti secoli di antigiudaismo – proprio come accade ora. E negli anni 70, questi amici, questi giovani già sordi, insegnanti, bibliotecari, artisti, mi dicevano: “Ma che lingua parlano, lì?”. “In ebraico”, rispondevo. Loro scuotevano la testa. “L’ebraico”, come se gli avessi detto che a Tel Aviv si lavavano i denti con la sabbia. Poi la botola si richiudeva e io tornavo al buio. Così avveniva la mia scoperta, progressiva e sempre meno decente, che noi, gli Ebrei, fossimo spendibili come vittime della guerra, come uomini in fuga dal fascismo, come specchio dell’orrore nazista; ma non come uomini e donne d’Israele, del presente, non come parte della rinascita ebraica, dopo la Catastrofe. E così, mentre gli ex fascisti ed ex avanguardisti dovevano ancora fare i conti con l’olio di ricino, le bastonature agli oppositori, e lo schifo allucinato delle leggi razziali, dalla parte opposta gli ex antifascisti dovevano ancora fare i conti con l’esistenza dello stato d’Israele. E anche ora succede che nessuno senta il suono di ciò che proviene da “lì”; che voglia riconoscere il presente ebraico. Da quale lunga via dolorosa questo presente nasca. L’altro giorno mi scrive mio nipote Moshe, sulla rete. E’ a Petach Tikva coi kabbalisti di Baal Asulam. Ogni notte alle tre si alzano e studiano col rav. Laitman sino alle sei del mattino e la lezione va in onda in tutto il mondo, tradotta in inglese, spagnolo, italiano, tedesco. Ci parliamo che è “tishà beav”, il nono giorno del mese di av, data molteplice della catastrofe ebraica lungo la Storia. Giorno di lutto e di digiuno. Il 9 di av del 586 a. C., i Babilonesi distrussero il Tempio di Salomone. Ci fu una diaspora di 400 anni e quando gli Ebrei tornarono a Gerusalemme, per prima cosa lessero la Torah e la gente piangeva e singhiozzava e i capi del popolo dicevano: non fate così. Il 9 di av dell’anno 70, i romani distrussero il secondo Tempio, e ci fu una diaspora di duemila anni. Il 9 di av del 1492 gli ebrei furono cacciati dalla Spagna, convertiti a forza, messi al rogo, perseguitati dall’Inquisizione e cominciarono a pregare in ebraico sottovoce, di nascosto. L’altra notte a Petach Tikva quelli di Baal Asulam erano seduti per terra, col rabbino, scalzi e a digiuno. C’era la lezione sulla distruzione del Tempio. Leggo le parole di Moshe e bevo questo lutto, nel lutto della guerra. Ahmadinejad dice che Israele deve essere distrutta. Se Israele non ci fosse più, chi racconterebbe la Storia? Chi parlerebbe dei vasi infranti, chi ripeterebbe le lezioni del rav. Ashlag, maestro del maestro Laitman? Poi mi telefona un amico, da ragazzi andavamo a vedere la Fiorentina. Chiede notizie dei miei, a Haifa. Racconta di un suo conoscente, una persona mite. Parlano della situazione in Libano. L’amico lo guarda e fa: “Sono duemila anni che loro rompono”. Siamo a questo punto della notte.
Alessandro Schwed
fonte Il Foglio del 6.8.2006
«C’è un orecchio che non sente là dove sono le solitarie ragioni d’Israele»
Ancora un ringhio dal buio. Ahmadinejad. L’altro giorno l’orco con la giacchetta ha detto che la soluzione è la distruzione di Israele. E’ lui il nostro partner per la pace. Ringhia – e molti non sentono. Allora siamo qui a parlare di sordità. C’è una costante disparità di udito verso la Storia ebraica, non sentita quella, sentita quella di chiunque altro. E risuona forte la sproporzione della condanna ecumenica della violenza e questo inudito, continuo ringhio nell’aria. Tutti potremmo sentirlo. Eppure molti orecchi non sentono la limpidezza malefica, questa cristallina purezza alla rovescia: “L’unica soluzione è la distruzione d’Israele”. Il male ha l’astuzia per regnare. C’è un orecchio che non funziona, là dove risuonano le solitarie ragioni d’Israele. Allora mi ricordo. Quasi nessuno degli amici di un tempo, ragazzi con me nella sinistra dei primi anni 70, al Manifesto, ai concerti jazz che organizzavamo, con Don Cherry e Antony Braxton, ragazzi con cui inventavamo i locali underground e la satira ruggente – nessuno di loro chiede, o ha mai chiesto, notizie dei miei fratelli e dei miei nipoti, dei miei vecchi quando ancora c’erano, a Haifa e a Gerusalemme. C’è questo orecchio che non sente il rumore degli scoppi in Israele – un problema di sentire, che è anche dei sentimenti. Eppure i ragazzi del rock, del Manifesto, dell’underground, della satira stavano in ascolto atterrito ai racconti su mio padre in fuga dal fascismo, su mio padre che dai partigiani riceve il messaggio della madre deportata, scritto su pezzo di tela con un chiodo intinto nel sangue e lanciato sulla ferrovia da un vagone bestiame. “Figlio mio, addio. Mamma”. Una volta, complice Firenze ai nostri piedi, e l’infilata di ponti sull’Arno, ebbi il coraggio di dire tutto lo strazio a quelli del rock e della sinistra. Piangemmo insieme. Ma c’era l’orecchio che anche allora non voleva sentire. Quello situato proprio dalla parte dove si trova Gerusalemme. Mio padre e mia madre, i miei fratelli, se n’erano appena andati in Israele, e nessuno di loro mi chiedeva del presente: d’Israele. C’erano solo domande sulla Seconda guerra mondiale. I fascisti, i partigiani e i tedeschi, e che la mia famiglia abitasse in Israele era tra le pieghe dei fatti, o forse sotto a pieghe che io stesso provvedevo a piegare, una sull’altra. Per coprire questa enorme, indecorosa ingiustizia che la mia famiglia era andata “là”. E quando a volte la parola veniva detta, Israele, voleva dire che c’era stata una momentanea uscita dalla sordità per loro, e da una quotidiana solitudine per me. Dicevano Israele ed era come se qualcuno a un tratto alzasse il coperchio della botola in fondo alla quale io abitavo, in qualche profondità ventrale della terra, dove era ricoverata la vergogna sionista. Assurdi Ebrei, in piedi in una propria patria. La botola si apriva e mi raggiungeva una ventata d’aria buona, la normale luce del giorno. Come se anche io potessi approdare, per un breve sollievo concesso, alle possibilità della vita. Succedeva che anche io avevo un presente, e non solo il passato. Non solo la Shoah, ma addirittura Israele. Esisteva la mia famiglia, i miei fratelli, e questo padre dipinto dagli amici comunisti come un dentista tiranno che era andato a Haifa. E per un momento, complice qualche bicchiere di vino e una panchina su Firenze, si scioglievano le lingue. Una specie di risolino nervoso affiorava sulle loro labbra e i miei amici, e davvero eravamo amici, e poi davvero di sinistra, mi chiedevano turbati di questa nazione dall’altra parte del mare. Volevano sapere perché la mia famiglia viveva in Israele. E per una sera non sordi, mi chiedevano: “Ma com’è, lì?”. Non dicevano Israele, dicevano “lì”. Pareva di essere interrogato su come fosse possibile violare la legge di gravità e abitare in un pianeta sospeso sul niente e venuto dal niente. “Lì”, uno stato senza nome, a volte chiamato con malizia Palestina. Come se non fossimo nel ’75, ma nell’anno 20 d. C. e per un puro caso non conversassimo in latino. “Si dice Israele”, dissi una volta. “Via – mi fu risposto – Palestina, Israele, è la stessa”. Israele era un posto dalla incongrua esistenza storica. Nessuno di questi miei amici, ognuno colmo di Marx, di Gramsci e di Marcuse, sapeva ricollegare Israele alla Shoah e a venti secoli di antigiudaismo – proprio come accade ora. E negli anni 70, questi amici, questi giovani già sordi, insegnanti, bibliotecari, artisti, mi dicevano: “Ma che lingua parlano, lì?”. “In ebraico”, rispondevo. Loro scuotevano la testa. “L’ebraico”, come se gli avessi detto che a Tel Aviv si lavavano i denti con la sabbia. Poi la botola si richiudeva e io tornavo al buio. Così avveniva la mia scoperta, progressiva e sempre meno decente, che noi, gli Ebrei, fossimo spendibili come vittime della guerra, come uomini in fuga dal fascismo, come specchio dell’orrore nazista; ma non come uomini e donne d’Israele, del presente, non come parte della rinascita ebraica, dopo la Catastrofe. E così, mentre gli ex fascisti ed ex avanguardisti dovevano ancora fare i conti con l’olio di ricino, le bastonature agli oppositori, e lo schifo allucinato delle leggi razziali, dalla parte opposta gli ex antifascisti dovevano ancora fare i conti con l’esistenza dello stato d’Israele. E anche ora succede che nessuno senta il suono di ciò che proviene da “lì”; che voglia riconoscere il presente ebraico. Da quale lunga via dolorosa questo presente nasca. L’altro giorno mi scrive mio nipote Moshe, sulla rete. E’ a Petach Tikva coi kabbalisti di Baal Asulam. Ogni notte alle tre si alzano e studiano col rav. Laitman sino alle sei del mattino e la lezione va in onda in tutto il mondo, tradotta in inglese, spagnolo, italiano, tedesco. Ci parliamo che è “tishà beav”, il nono giorno del mese di av, data molteplice della catastrofe ebraica lungo la Storia. Giorno di lutto e di digiuno. Il 9 di av del 586 a. C., i Babilonesi distrussero il Tempio di Salomone. Ci fu una diaspora di 400 anni e quando gli Ebrei tornarono a Gerusalemme, per prima cosa lessero la Torah e la gente piangeva e singhiozzava e i capi del popolo dicevano: non fate così. Il 9 di av dell’anno 70, i romani distrussero il secondo Tempio, e ci fu una diaspora di duemila anni. Il 9 di av del 1492 gli ebrei furono cacciati dalla Spagna, convertiti a forza, messi al rogo, perseguitati dall’Inquisizione e cominciarono a pregare in ebraico sottovoce, di nascosto. L’altra notte a Petach Tikva quelli di Baal Asulam erano seduti per terra, col rabbino, scalzi e a digiuno. C’era la lezione sulla distruzione del Tempio. Leggo le parole di Moshe e bevo questo lutto, nel lutto della guerra. Ahmadinejad dice che Israele deve essere distrutta. Se Israele non ci fosse più, chi racconterebbe la Storia? Chi parlerebbe dei vasi infranti, chi ripeterebbe le lezioni del rav. Ashlag, maestro del maestro Laitman? Poi mi telefona un amico, da ragazzi andavamo a vedere la Fiorentina. Chiede notizie dei miei, a Haifa. Racconta di un suo conoscente, una persona mite. Parlano della situazione in Libano. L’amico lo guarda e fa: “Sono duemila anni che loro rompono”. Siamo a questo punto della notte.
Alessandro Schwed
fonte Il Foglio del 6.8.2006