Dizionario del buon senso: una prefazione
Per dirla subito e chiara: sfuggo, se appena possibile, alla pratica di quel faticoso – e rischioso – genere letterario che chiamano “prefazione”.
Innanzitutto, perché richiede la lettura di un libro che spesso non hai voglia di leggere, almeno in quel momento.
Quelli della mia generazione sono stati formati – e deformati – da certe brossure tascabili, con in copertina un fascinoso acquerello, l’indice degli articoli e la testata: Selezione dal Reader’s Digest. Un capolavoro mai riuscito ad altri, almeno in quelle dimensioni planetarie. Farcela, cioè, a riempire barche di soldi, vendendo a caro prezzo fascicoli di propaganda ben confezionata ma per niente dissimulata. Se tanti si sono convinti che non ci fosse salvezza se non nell’imitare, da provinciali poveri, l’american way of life, lo si deve anche a quelle pagine. I tedeschi, durante la guerra, avevano Signal: al di là dei contenuti, un capolavoro di tecnica redazionale, di impaginazione, di stampa. Esaminare qualche numero per credere. Non per niente la collezione la si studia nelle scuole migliori di questo nostro mestiere. Ma Signal (fino a tre milioni di copie in una dozzina di lingue, per sei anni, sino alla fine), a differenza del Reader’s Digest, che pagavamo, costava una cifra al Ministerium für Propaganda di quel simpaticone di Joseph dottor Goebbels.
Sto divagando, mi capita spesso. In realtà volevo dire, semplicemente, che non ho scordato due rubriche fondanti, due pilastri di quella melensa Selezione: Una persona che non dimenticherò mai e Il più bel giorno della mia vita. Quest’ultimo, per quel che mi riguarda, fu il giorno della laurea. Sbrigatomi con l’ultimo adempimento, la discussione della tesi, me ne uscii fischiettando dal grigio palazzotto sabaudo. Era grigio anche il cielo sopra Torino, ma il cuore scampanava a festa: avevo pagato il ticket d’ingresso alla vita e, finalmente, non sarei stato più costretto a studiare quanto interessava non a me, ma a un professore, per quanto illustre. Nessuno mi avrebbe più obbligato a seguire non le mie, ma le sue letture, i suoi progetti, le sue piste di ricerca. Il sollievo era tale che mi proposi di dedicare la vita alla carta stampata – mia e di altri – senza mettere più piede in una scuola, soprattutto se universitaria. Proposito, almeno questo, mantenuto.
Ebbene: accettare di stendere una prefazione non è, in fondo, rientrare nell’incubo scolastico, costringerti a prendere in mano, addirittura a studiare, un libro propostoti da altri?
Ma poi. Se l’autore è prestigioso e l’opera importante, presentarlo rischia di farti passare per parassita, per opportunista che si mette al traino del prestigio e dell’operosità di altri. Se, al contrario, pagine e autore valgono poco, nessuno ti risparmierà il sospetto di dilapidare quel po’ di autorevolezza che potresti avere per chissà quali inciuci, nepotismi, mafie, ricatti. Ci sarà pure un motivo inconfessabile ed occulto, se ti sei ridotto a far da paraculo a un simile mediocre.
Comunque sia, eccomi qua, a conferma che la coerenza è disumana e che (come insegnavano i benemeriti probabilisti barocchi della Compagnia di Gesù) è della condizione umana non essere coerenti a propositi e princìpi. Questi vanno sempre proclamati, mai però dimenticando che caro infirma est. Dunque, comprensione e perdono para todos. Eccomi qua, dunque, a “prefare” queste pagine di Stefano Lorenzetto. Rischiando, in questo caso, di passar per parassita od opportunista che approfitta dell’eccellenza altrui. In effetti, tanto per venire subito al sodo: il libro è buono; è molto buono. E non temo sospetti di adulazione, ho una prova ineccepibile di sincerità.
Ho chiesto al collega, difatti, di aiutarmi nel compito che – contradditoriamente – mi ero assunto, inviandomi quanto di significativo fosse stato scritto su di lui. Ho ricevuto un faldone elettronico imponente, dove ho avuto conferma, tra l’altro, di premi come il Saint Vincent e l’Estense: la cupola, i Pulitzer del giornalismo nostrano. Ho letto, con sotto firme prestigiose, sentenze come la seguente: «Lorenzetto produce arte sotto forma di giornalismo» (o, in una versione preferita da un altro recensore: «In lui il giornalismo confina con l’arte»). Dappertutto, tracimava la stima. Mentre scorrevo ammirato, un soprassalto. C’ero anch’io, tra quei tanti. Ma sì, la mia firma stava sotto la seguente frasetta: «L’ottimo Lorenzetto (le sue paginate di Tipi italiani me le centèllino)».
Non ricordavo, confesso, in che occasione o su quale giornale avessi detto o scritto quelle parole. Chiarii, poi, che stavano in una lettera che, nel 2001, inviai a Il Giornale. Ma appurare la fonte non era importante, visto che quella riga non è apocrifa, mi ci riconosco ancora; e non ho da pentirmene. Anzi, posso confermarla con maggior convinzione, visto che nel frattempo si sono succeduti, implacabili, i colloqui-paginone di Lorenzetto; ed io ho continuato a centellinare.
A stornare ancor più il sospetto, si precisa che il veronese autore e l’emilian-piemontese prefatore non sono amici, nel senso che – pur se sembrerà strano – non si sono mai frequentati, non fanno parte del cerchio consueto di sodali di redazione, di ristorante, di case al mare. Non partecipano, insomma, di quella colleganza che si fa camarilla e che porta a sorreggersi professionalmente, scambiandosi complimenti, recensioni, premi, nel nome (umanissimo anche questo, sia chiaro e, dunque, non condannabile) del do ut des. Sin qui, il nostro incontro è stato sempre e solo a livello di lettura reciproca, all’insaputa l’uno dell’altro, visto che mai ci siamo scambiati pareri sul rispettivo lavoro. Dunque, niente combine, niente amici degli amici.
La mia ammirazione per l’ars intervistatoria del Lorenzetto (sembra il nome di un pittore del Cinquecento veneziano, l’articolo “il” viene spontaneo per questo pennellatore di parole) è un’ammirazione da “tecnico”. È da uomo del mestiere quale sono – non so fare niente altro; e poi, si sa, è sempre meglio che lavorare – che cerca di spiegare ai ragazzotti e alle ragazzotte con registratore, taccuino, microfono che spesso lo tormentano, che l’intervista è un punto di arrivo della professione; non può, non deve essere un punto di partenza. Incapaci, temo, di strutturare un articolo come Dio e lettore comandano, pensano – quegli sbarbati – di cavarsela sbobinando da nastri o ribattendo letteralmente dagli appunti scarabocchiati.
In realtà, ciò che conta, nell’intervista, non sono le risposte (tutti sono capaci di bofonchiare qualcosa) ma le domande: è per domandare, non per rispondere, che ci vuole talento. E che bisogna far fatica. La fatica di sapere tutto, o almeno molto, dell’interlocutore da affrontare e su questa conoscenza modulare la griglia dei quesiti. Conservando, al contempo, il dono, o l’astuzia, della sorpresa e della scoperta da comunicare al lettore. Talento, fatica, studio. E umiltà. Quella di chi sa restare strumento a servizio delle piccole o grandi cose che l’intervistato può comunicare; e a servizio di chi investe soldi e tempo per leggere quelle righe e non gli interessa – in quella sede, almeno – che ne pensino il Lorenzetto o il Messori, bensì i loro interlocutori. Le domande che superano le poche, pochissime righe sono da principiante o da dilettante; o da egocentrico, che approfitta dell’occasione per intervistare se stesso; o da pigro, che non si è documentato e va sul generico e l’universale; o da insicuro che si blinda di parole.
Ma l’intervistatore ideale è anche educato, rispetta chi ha di fronte, rifugge dall’aggressività, diffida (o ride) del giornalista citoyen, quello che si indigna, che milita, che provoca, che moraleggia. Dio ci scampi dal periodismo di denuncia: garantisce chi, come me, lavorava nelle redazioni nei cupi Settanta, quando “er collega de sinistra”, quasi sempre un cronista del defunto Paese Sera, era uno stereotipo invariabilmente presente nei film engagés. I colloqui più esplosivi, devastanti – o, almeno, interessanti – ci sono offerti da chi sa indurre alla confidenza, addirittura alla confessione; dall’intervistatore mite, comprensivo, sottotono, magari un pizzico bonario. In apparenza, naturalmente. Nella realtà, le unghie più pericolose sono quelle dei felini, che le nascondono sotto l’aspetto di innocue, simpatiche babbucce. Lo sventurato rispose... E sono in tanti, per fortuna dei lettori, ad essere cascati nel trappolone di chi si presenta come un amico comprensivo, uno che potrebbe persino spacciarsi come un veneto un po’ dialettale e polentone, con il quale si può liberamente chiacchierare.
Se queste sono le virtù dell’intervistatore verace, del giornalista che sa stare al mondo, credo si possa dire – con oggettività – che queste virtù Lorenzetto le possiede. Del resto, non lo dico io, lo dice ciò che ha fatto e che ogni giorno fa, bulinando e cesellando i resoconti dei suoi incontri. Carta canta. Non canta un’amicizia un po’ mafiosa. Chi non è convinto, analizzi la tecnica e veda la “resa” giornalistica delle innumerevoli paginate-colloquio del Nostro.
Ma, per venire finalmente al libro che il lettore ha tra le mani. Qui c’è Stefano Lorenzetto che scrive in proprio, senza nascondersi dietro a interlocutori, c’è il giornalista che legge uno sconquasso di giornali (mi dicono una quindicina, solo di quotidiani), che accende la televisione, che si guarda attorno. E che riflette, commenta, opina, proponendoci il suo “secondo me”. Quasi ogni medium ha un signore di questo tipo. La categoria degli specialisti in varia umanità, in critica di costume, in corsivi, in elzeviri è inflazionata, così come lo è quella degli intervistatori. Il rubrichista, il corsivista, il commentatore, l’opinionista è, in fondo, un cannibale, forse anche un po’ parassita: è il giornalista che al mattino mangia giornali; e la digestione consiste nel darci il suo parere il mattino dopo.
Ma, pure tra questa turba, c’è – come sempre – il grano e c’è la paglia; c’è la farina e c’è la crusca. E, anche qui, il Nostro mi sembra far parte della prima categoria. Sembro ruffiano, lo so; e invece sono, ancora una volta, oggettivo. In effetti parlo, lo ripeto, da scriba di lungo corso; da chi, ormai vecchio – di anagrafe e di tessera dell’Ordine – sa che cosa dice. So bene, dunque, per esperienza annosa, che significhi fare una serie di interviste e, da esse, trarre dei libri. Ma so anche che significhi tenere un rubrica (una, sul quotidiano cattolico, mi spinsi a pubblicarla ben tre volte la settimana, per anni), so che significhi scrivere un corsivo, uno sfogo, un ritratto, un commento, un’opinione. Ho l’occhio logoro nel soppesare chi ha fatto e fa il mio stesso lavoro.
Se qui mi confermo nel giudizio di una qualità singolare, ci sono dei buoni motivi. Innanzitutto, quell’opinionista vulgaris (nel senso latino, s’intende...) che dicevamo è di bocca buona: gli bastano le notizie che trova in pagina e – pur sapendo bene quali siano le imprecisioni, le deformazioni, magari le faziosità delle redazioni – le commenta come fossero autentiche o, almeno, precise, così come sono pubblicate. La sua indolenza, poi, si spinge spesso al punto di non dargli neanche la voglia di aprire una qualche garzantina per controllare qualcosa.
È una pigrizia, è una superficialità che non affliggono di certo il Lorenzetto. La notizia su cui vuole dire la sua è per lui un punto di partenza per scavi sorprendenti: c’è da restare ammirati dallo scialo di cifre precise, di fatti correlati, di nomi verificati. È uno che, per dire, se si propone di parlare di “ecomostri”, approfitta di un viaggio lungo la costiera adriatica per contare quanti, e dove, siano gli edifici più alti di dieci piani. Se qualcuno pubblica che un manager sadomaso ha il vizietto di legare la segretaria al computer con una cravatta, ne misura una standard, accerta che è lunga solo 148 centimetri e che, dunque, l’erotica manovra è impraticabile. Se un moralista politically correct dice il suo sprezzo per chi appare in tv, soprattutto in tempi berlusconiani, Lorenzetto si irrita ma non fa come il corsivista normale, contrapponendo parole a parole. No, il nostro va a controllare (e non so proprio come abbia fatto), si procura tabulati ed elenchi, ricostruisce un calendario e, alla fine, sciorina una lista precisa delle comparsate catodiche praticate dallo sdegnoso collega predicatore. Se vuol parlare di francobolli si fa filatelico, prima di mettersi alla tastiera si costruisce una piccola ma puntuale cultura in proposito. Vuol prendersela con gli applausi alle casse da morto? Eccolo darsi a una ricerca di archivio per stabilire dove e quando risuonarono i primi battimani a un funerale. Deve riempire un lemma in cui parla del furto e gli vien comodo tirare in ballo San Tommaso d’Aquino? Qui, stupisce anche quel piccolo specialista che dovrei essere io stesso, dopo tanti anni di frequentazione di simili temi: ecco il nostro “tuttologo” trovare le citazioni giuste nelle molte Summae dell’Aquinate e applicarle in modo preciso ad appoggio della sua tesi.
Insomma, non c’è nulla della sciatteria pigra del commentatore che non leva il sedere dalla sedia, che se la cava con un repertorio di battute, che mescola sdegno e sarcasmo, che frigge – quasi fossero leccornie – parole imprecise nell’olio di altre parole altrettanto imprecise. C’è in Lorenzetto una curiosità di approfondire, di controllare, di parlare solo su dati e fatti precisi che dovrebbe essere di ogni gazzettiere e che gli dà una serietà che manca ai tanti colleghi che si misurano con quel nulla che è, troppo spesso, la “critica di costume”.
Ma c’è anche, qui, qualcosa di insolito per un genere che è tentato sempre dal moralismo. E sappiamo bene, noialtri della corporazione, da quali pulpiti vengano le prediche e le melasse “etiche”. Il Nostro non cade nella trappola, addita senza lagne e senza cattiverie, è lontano dai veleni del dottrinario alla giacobina che (lo osservava quel Tocqueville che praticavo anche quando era ben lontano dall’essere di moda) è sempre pronto a drammatizzare la piccola contingenza socio-politica e a demonizzare chi cade sotto la sua penna. Lorenzetto è di scuola veronese: c’è, nel veneto – intriso di un cattolicesimo solido e al contempo sanamente parrocchiale, alla San Pio X – un fondo di dolcezza naturale, di comprensione, di realismo cristiano che porta alla tolleranza e al rifiuto di trasformare in veleni mortali le spezie doverose della polemica. Una scuola, la veneta, ben lontana dalla toscana e dalla piemontese e che mi ha sempre ricordato quella emiliana, in particolare parmigiana, altrettanto umana e altrettanto affollata di geni e geniacci del giornalismo.
A proposito. Forse, l’impressione è solo personale: ma mi è sembrato di auscultare qualcosa che ho amato, in certi accenti dove lo stilettare di Lorenzetto non riesce a nascondere la bonarietà di fondo, in certo suo gusto di un umorismo salace e al contempo comprensivo, non maligno. Quel “qualcosa” è il ricordo di letture che furono tra quelle che segnarono la mia adolescenza: sono lo Zibaldino, innanzitutto; e, poi, Il destino si chiama Clotilde, La scoperta di Milano. Oltre, naturalmente, alla saga di Mondo piccolo. Ma sì, Giovannino Guareschi, quel grande parmigiano che so essere caro anche a questo veronese, pronto egli pure a fuggire da Milano per guardare il mondo dal nido caldo del suo paese. Guareschiane mi sembrano anche certe idiosincrasie curiose, certi rifiuti umorali, come l’avversione per gli anelli in dita maschili o per determinati tic ed espressioni linguistiche.
Poiché bisogna pur finire, una parola sul titolo. Il “buon senso” che spicca in copertina mi sembra adeguato a indicare il contenuto di un libro scritto da un uomo pragmatico, che rifugge dalle ideologie; da un moderato che non sa che farsene degli estremismi; da un giornalista pur colto, che ride delle astrattezze di tanti intellettuali; da un credente (spero di poterlo azzardare, senza violare una doverosa intimità) che sa che dono della fede è un realismo che impedisce di cadere nelle trappole dialettiche del “mondo”.
Il “buon senso” – il common sense degli anglosassoni, del mio venerato John Henry Newman – non è che il volto umile, quotidiano, di una ragione che, se non abusata e manipolata all’uso razionalista, sa farci distinguere ancora tra bene e male, tra umano e disumano. Che è ciò di cui abbiamo più bisogno, inquinati come siamo dalla nuova inquisizione, dal dogmatismo farisaico e feroce – dietro il volto suadente – della “correttezza politica”. Per questo, questo Dizionario mi sembra un atto di resistenza di cui noi, cultori coriacei del buon senso, dovremmo essere almeno un poco grati.
Vittorio Messori
© et-et.it | 2001-2006
Per dirla subito e chiara: sfuggo, se appena possibile, alla pratica di quel faticoso – e rischioso – genere letterario che chiamano “prefazione”.
Innanzitutto, perché richiede la lettura di un libro che spesso non hai voglia di leggere, almeno in quel momento.
Quelli della mia generazione sono stati formati – e deformati – da certe brossure tascabili, con in copertina un fascinoso acquerello, l’indice degli articoli e la testata: Selezione dal Reader’s Digest. Un capolavoro mai riuscito ad altri, almeno in quelle dimensioni planetarie. Farcela, cioè, a riempire barche di soldi, vendendo a caro prezzo fascicoli di propaganda ben confezionata ma per niente dissimulata. Se tanti si sono convinti che non ci fosse salvezza se non nell’imitare, da provinciali poveri, l’american way of life, lo si deve anche a quelle pagine. I tedeschi, durante la guerra, avevano Signal: al di là dei contenuti, un capolavoro di tecnica redazionale, di impaginazione, di stampa. Esaminare qualche numero per credere. Non per niente la collezione la si studia nelle scuole migliori di questo nostro mestiere. Ma Signal (fino a tre milioni di copie in una dozzina di lingue, per sei anni, sino alla fine), a differenza del Reader’s Digest, che pagavamo, costava una cifra al Ministerium für Propaganda di quel simpaticone di Joseph dottor Goebbels.
Sto divagando, mi capita spesso. In realtà volevo dire, semplicemente, che non ho scordato due rubriche fondanti, due pilastri di quella melensa Selezione: Una persona che non dimenticherò mai e Il più bel giorno della mia vita. Quest’ultimo, per quel che mi riguarda, fu il giorno della laurea. Sbrigatomi con l’ultimo adempimento, la discussione della tesi, me ne uscii fischiettando dal grigio palazzotto sabaudo. Era grigio anche il cielo sopra Torino, ma il cuore scampanava a festa: avevo pagato il ticket d’ingresso alla vita e, finalmente, non sarei stato più costretto a studiare quanto interessava non a me, ma a un professore, per quanto illustre. Nessuno mi avrebbe più obbligato a seguire non le mie, ma le sue letture, i suoi progetti, le sue piste di ricerca. Il sollievo era tale che mi proposi di dedicare la vita alla carta stampata – mia e di altri – senza mettere più piede in una scuola, soprattutto se universitaria. Proposito, almeno questo, mantenuto.
Ebbene: accettare di stendere una prefazione non è, in fondo, rientrare nell’incubo scolastico, costringerti a prendere in mano, addirittura a studiare, un libro propostoti da altri?
Ma poi. Se l’autore è prestigioso e l’opera importante, presentarlo rischia di farti passare per parassita, per opportunista che si mette al traino del prestigio e dell’operosità di altri. Se, al contrario, pagine e autore valgono poco, nessuno ti risparmierà il sospetto di dilapidare quel po’ di autorevolezza che potresti avere per chissà quali inciuci, nepotismi, mafie, ricatti. Ci sarà pure un motivo inconfessabile ed occulto, se ti sei ridotto a far da paraculo a un simile mediocre.
Comunque sia, eccomi qua, a conferma che la coerenza è disumana e che (come insegnavano i benemeriti probabilisti barocchi della Compagnia di Gesù) è della condizione umana non essere coerenti a propositi e princìpi. Questi vanno sempre proclamati, mai però dimenticando che caro infirma est. Dunque, comprensione e perdono para todos. Eccomi qua, dunque, a “prefare” queste pagine di Stefano Lorenzetto. Rischiando, in questo caso, di passar per parassita od opportunista che approfitta dell’eccellenza altrui. In effetti, tanto per venire subito al sodo: il libro è buono; è molto buono. E non temo sospetti di adulazione, ho una prova ineccepibile di sincerità.
Ho chiesto al collega, difatti, di aiutarmi nel compito che – contradditoriamente – mi ero assunto, inviandomi quanto di significativo fosse stato scritto su di lui. Ho ricevuto un faldone elettronico imponente, dove ho avuto conferma, tra l’altro, di premi come il Saint Vincent e l’Estense: la cupola, i Pulitzer del giornalismo nostrano. Ho letto, con sotto firme prestigiose, sentenze come la seguente: «Lorenzetto produce arte sotto forma di giornalismo» (o, in una versione preferita da un altro recensore: «In lui il giornalismo confina con l’arte»). Dappertutto, tracimava la stima. Mentre scorrevo ammirato, un soprassalto. C’ero anch’io, tra quei tanti. Ma sì, la mia firma stava sotto la seguente frasetta: «L’ottimo Lorenzetto (le sue paginate di Tipi italiani me le centèllino)».
Non ricordavo, confesso, in che occasione o su quale giornale avessi detto o scritto quelle parole. Chiarii, poi, che stavano in una lettera che, nel 2001, inviai a Il Giornale. Ma appurare la fonte non era importante, visto che quella riga non è apocrifa, mi ci riconosco ancora; e non ho da pentirmene. Anzi, posso confermarla con maggior convinzione, visto che nel frattempo si sono succeduti, implacabili, i colloqui-paginone di Lorenzetto; ed io ho continuato a centellinare.
A stornare ancor più il sospetto, si precisa che il veronese autore e l’emilian-piemontese prefatore non sono amici, nel senso che – pur se sembrerà strano – non si sono mai frequentati, non fanno parte del cerchio consueto di sodali di redazione, di ristorante, di case al mare. Non partecipano, insomma, di quella colleganza che si fa camarilla e che porta a sorreggersi professionalmente, scambiandosi complimenti, recensioni, premi, nel nome (umanissimo anche questo, sia chiaro e, dunque, non condannabile) del do ut des. Sin qui, il nostro incontro è stato sempre e solo a livello di lettura reciproca, all’insaputa l’uno dell’altro, visto che mai ci siamo scambiati pareri sul rispettivo lavoro. Dunque, niente combine, niente amici degli amici.
La mia ammirazione per l’ars intervistatoria del Lorenzetto (sembra il nome di un pittore del Cinquecento veneziano, l’articolo “il” viene spontaneo per questo pennellatore di parole) è un’ammirazione da “tecnico”. È da uomo del mestiere quale sono – non so fare niente altro; e poi, si sa, è sempre meglio che lavorare – che cerca di spiegare ai ragazzotti e alle ragazzotte con registratore, taccuino, microfono che spesso lo tormentano, che l’intervista è un punto di arrivo della professione; non può, non deve essere un punto di partenza. Incapaci, temo, di strutturare un articolo come Dio e lettore comandano, pensano – quegli sbarbati – di cavarsela sbobinando da nastri o ribattendo letteralmente dagli appunti scarabocchiati.
In realtà, ciò che conta, nell’intervista, non sono le risposte (tutti sono capaci di bofonchiare qualcosa) ma le domande: è per domandare, non per rispondere, che ci vuole talento. E che bisogna far fatica. La fatica di sapere tutto, o almeno molto, dell’interlocutore da affrontare e su questa conoscenza modulare la griglia dei quesiti. Conservando, al contempo, il dono, o l’astuzia, della sorpresa e della scoperta da comunicare al lettore. Talento, fatica, studio. E umiltà. Quella di chi sa restare strumento a servizio delle piccole o grandi cose che l’intervistato può comunicare; e a servizio di chi investe soldi e tempo per leggere quelle righe e non gli interessa – in quella sede, almeno – che ne pensino il Lorenzetto o il Messori, bensì i loro interlocutori. Le domande che superano le poche, pochissime righe sono da principiante o da dilettante; o da egocentrico, che approfitta dell’occasione per intervistare se stesso; o da pigro, che non si è documentato e va sul generico e l’universale; o da insicuro che si blinda di parole.
Ma l’intervistatore ideale è anche educato, rispetta chi ha di fronte, rifugge dall’aggressività, diffida (o ride) del giornalista citoyen, quello che si indigna, che milita, che provoca, che moraleggia. Dio ci scampi dal periodismo di denuncia: garantisce chi, come me, lavorava nelle redazioni nei cupi Settanta, quando “er collega de sinistra”, quasi sempre un cronista del defunto Paese Sera, era uno stereotipo invariabilmente presente nei film engagés. I colloqui più esplosivi, devastanti – o, almeno, interessanti – ci sono offerti da chi sa indurre alla confidenza, addirittura alla confessione; dall’intervistatore mite, comprensivo, sottotono, magari un pizzico bonario. In apparenza, naturalmente. Nella realtà, le unghie più pericolose sono quelle dei felini, che le nascondono sotto l’aspetto di innocue, simpatiche babbucce. Lo sventurato rispose... E sono in tanti, per fortuna dei lettori, ad essere cascati nel trappolone di chi si presenta come un amico comprensivo, uno che potrebbe persino spacciarsi come un veneto un po’ dialettale e polentone, con il quale si può liberamente chiacchierare.
Se queste sono le virtù dell’intervistatore verace, del giornalista che sa stare al mondo, credo si possa dire – con oggettività – che queste virtù Lorenzetto le possiede. Del resto, non lo dico io, lo dice ciò che ha fatto e che ogni giorno fa, bulinando e cesellando i resoconti dei suoi incontri. Carta canta. Non canta un’amicizia un po’ mafiosa. Chi non è convinto, analizzi la tecnica e veda la “resa” giornalistica delle innumerevoli paginate-colloquio del Nostro.
Ma, per venire finalmente al libro che il lettore ha tra le mani. Qui c’è Stefano Lorenzetto che scrive in proprio, senza nascondersi dietro a interlocutori, c’è il giornalista che legge uno sconquasso di giornali (mi dicono una quindicina, solo di quotidiani), che accende la televisione, che si guarda attorno. E che riflette, commenta, opina, proponendoci il suo “secondo me”. Quasi ogni medium ha un signore di questo tipo. La categoria degli specialisti in varia umanità, in critica di costume, in corsivi, in elzeviri è inflazionata, così come lo è quella degli intervistatori. Il rubrichista, il corsivista, il commentatore, l’opinionista è, in fondo, un cannibale, forse anche un po’ parassita: è il giornalista che al mattino mangia giornali; e la digestione consiste nel darci il suo parere il mattino dopo.
Ma, pure tra questa turba, c’è – come sempre – il grano e c’è la paglia; c’è la farina e c’è la crusca. E, anche qui, il Nostro mi sembra far parte della prima categoria. Sembro ruffiano, lo so; e invece sono, ancora una volta, oggettivo. In effetti parlo, lo ripeto, da scriba di lungo corso; da chi, ormai vecchio – di anagrafe e di tessera dell’Ordine – sa che cosa dice. So bene, dunque, per esperienza annosa, che significhi fare una serie di interviste e, da esse, trarre dei libri. Ma so anche che significhi tenere un rubrica (una, sul quotidiano cattolico, mi spinsi a pubblicarla ben tre volte la settimana, per anni), so che significhi scrivere un corsivo, uno sfogo, un ritratto, un commento, un’opinione. Ho l’occhio logoro nel soppesare chi ha fatto e fa il mio stesso lavoro.
Se qui mi confermo nel giudizio di una qualità singolare, ci sono dei buoni motivi. Innanzitutto, quell’opinionista vulgaris (nel senso latino, s’intende...) che dicevamo è di bocca buona: gli bastano le notizie che trova in pagina e – pur sapendo bene quali siano le imprecisioni, le deformazioni, magari le faziosità delle redazioni – le commenta come fossero autentiche o, almeno, precise, così come sono pubblicate. La sua indolenza, poi, si spinge spesso al punto di non dargli neanche la voglia di aprire una qualche garzantina per controllare qualcosa.
È una pigrizia, è una superficialità che non affliggono di certo il Lorenzetto. La notizia su cui vuole dire la sua è per lui un punto di partenza per scavi sorprendenti: c’è da restare ammirati dallo scialo di cifre precise, di fatti correlati, di nomi verificati. È uno che, per dire, se si propone di parlare di “ecomostri”, approfitta di un viaggio lungo la costiera adriatica per contare quanti, e dove, siano gli edifici più alti di dieci piani. Se qualcuno pubblica che un manager sadomaso ha il vizietto di legare la segretaria al computer con una cravatta, ne misura una standard, accerta che è lunga solo 148 centimetri e che, dunque, l’erotica manovra è impraticabile. Se un moralista politically correct dice il suo sprezzo per chi appare in tv, soprattutto in tempi berlusconiani, Lorenzetto si irrita ma non fa come il corsivista normale, contrapponendo parole a parole. No, il nostro va a controllare (e non so proprio come abbia fatto), si procura tabulati ed elenchi, ricostruisce un calendario e, alla fine, sciorina una lista precisa delle comparsate catodiche praticate dallo sdegnoso collega predicatore. Se vuol parlare di francobolli si fa filatelico, prima di mettersi alla tastiera si costruisce una piccola ma puntuale cultura in proposito. Vuol prendersela con gli applausi alle casse da morto? Eccolo darsi a una ricerca di archivio per stabilire dove e quando risuonarono i primi battimani a un funerale. Deve riempire un lemma in cui parla del furto e gli vien comodo tirare in ballo San Tommaso d’Aquino? Qui, stupisce anche quel piccolo specialista che dovrei essere io stesso, dopo tanti anni di frequentazione di simili temi: ecco il nostro “tuttologo” trovare le citazioni giuste nelle molte Summae dell’Aquinate e applicarle in modo preciso ad appoggio della sua tesi.
Insomma, non c’è nulla della sciatteria pigra del commentatore che non leva il sedere dalla sedia, che se la cava con un repertorio di battute, che mescola sdegno e sarcasmo, che frigge – quasi fossero leccornie – parole imprecise nell’olio di altre parole altrettanto imprecise. C’è in Lorenzetto una curiosità di approfondire, di controllare, di parlare solo su dati e fatti precisi che dovrebbe essere di ogni gazzettiere e che gli dà una serietà che manca ai tanti colleghi che si misurano con quel nulla che è, troppo spesso, la “critica di costume”.
Ma c’è anche, qui, qualcosa di insolito per un genere che è tentato sempre dal moralismo. E sappiamo bene, noialtri della corporazione, da quali pulpiti vengano le prediche e le melasse “etiche”. Il Nostro non cade nella trappola, addita senza lagne e senza cattiverie, è lontano dai veleni del dottrinario alla giacobina che (lo osservava quel Tocqueville che praticavo anche quando era ben lontano dall’essere di moda) è sempre pronto a drammatizzare la piccola contingenza socio-politica e a demonizzare chi cade sotto la sua penna. Lorenzetto è di scuola veronese: c’è, nel veneto – intriso di un cattolicesimo solido e al contempo sanamente parrocchiale, alla San Pio X – un fondo di dolcezza naturale, di comprensione, di realismo cristiano che porta alla tolleranza e al rifiuto di trasformare in veleni mortali le spezie doverose della polemica. Una scuola, la veneta, ben lontana dalla toscana e dalla piemontese e che mi ha sempre ricordato quella emiliana, in particolare parmigiana, altrettanto umana e altrettanto affollata di geni e geniacci del giornalismo.
A proposito. Forse, l’impressione è solo personale: ma mi è sembrato di auscultare qualcosa che ho amato, in certi accenti dove lo stilettare di Lorenzetto non riesce a nascondere la bonarietà di fondo, in certo suo gusto di un umorismo salace e al contempo comprensivo, non maligno. Quel “qualcosa” è il ricordo di letture che furono tra quelle che segnarono la mia adolescenza: sono lo Zibaldino, innanzitutto; e, poi, Il destino si chiama Clotilde, La scoperta di Milano. Oltre, naturalmente, alla saga di Mondo piccolo. Ma sì, Giovannino Guareschi, quel grande parmigiano che so essere caro anche a questo veronese, pronto egli pure a fuggire da Milano per guardare il mondo dal nido caldo del suo paese. Guareschiane mi sembrano anche certe idiosincrasie curiose, certi rifiuti umorali, come l’avversione per gli anelli in dita maschili o per determinati tic ed espressioni linguistiche.
Poiché bisogna pur finire, una parola sul titolo. Il “buon senso” che spicca in copertina mi sembra adeguato a indicare il contenuto di un libro scritto da un uomo pragmatico, che rifugge dalle ideologie; da un moderato che non sa che farsene degli estremismi; da un giornalista pur colto, che ride delle astrattezze di tanti intellettuali; da un credente (spero di poterlo azzardare, senza violare una doverosa intimità) che sa che dono della fede è un realismo che impedisce di cadere nelle trappole dialettiche del “mondo”.
Il “buon senso” – il common sense degli anglosassoni, del mio venerato John Henry Newman – non è che il volto umile, quotidiano, di una ragione che, se non abusata e manipolata all’uso razionalista, sa farci distinguere ancora tra bene e male, tra umano e disumano. Che è ciò di cui abbiamo più bisogno, inquinati come siamo dalla nuova inquisizione, dal dogmatismo farisaico e feroce – dietro il volto suadente – della “correttezza politica”. Per questo, questo Dizionario mi sembra un atto di resistenza di cui noi, cultori coriacei del buon senso, dovremmo essere almeno un poco grati.
Vittorio Messori
© et-et.it | 2001-2006