Si sono presi mio marito. E io, signora Coletta, ora aiuto i loro figli
di Lucia Bellaspiga
Cinque anni fa stupì l’Italia perdonando i terroristi che a Nasiriyah le avevano portato via Giuseppe. Oggi porta avanti la missione di pace del “brigadiere dei bambini” nel mondo. A cominciare dall’Iraq
«Se amate quelli che vi amano che merito avete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori». Chi pronunciava queste parole davanti alle telecamere dei giornalisti che affollavano la sua casa di San Vitaliano (Napoli) a poche ore dalla strage di Nasiriyah era Margherita Coletta. Era il 12 novembre del 2003. In braccio teneva Maria, 2 anni appena, e da poche ore aveva saputo che suo marito, il vicebrigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta, era tra i morti del sanguinoso attentato in Iraq. L’abisso le si leggeva in faccia, il suo era il volto del dolore, palpabile, disumano, ma in quel momento la sua fede di granito, più forte dei trecento chili di tritolo che avevano squassato la sua esistenza e quella di altre diciotto famiglie italiane, reggeva di fronte alla prova: «La nostra vita è tutta qua dentro», diceva a se stessa e ai giornalisti indicando il Vangelo.
Una prova che Margherita, 33 anni soltanto, aveva già dovuto affrontare: poco tempo prima il loro bambino, Paolo, era morto di leucemia. Giuseppe allora era arrabbiato con Dio, per un anno non era più entrato in chiesa, Margherita no, lei anche in quei giorni era la più forte: «Noi non possiamo conoscere i disegni di Dio, ma abbiamo un’unica grande certezza ed è che Dio ci ama. Lui non può volere il nostro male, dunque se ha permesso questo è per darci un giorno un bene maggiore. Io non posso capire, ma mi fido e mi affido».
Le stesse parole che, con strazio ancora più grande, piegata dal dolore ma mai spezzata, mi ha ripetuto quei giorni di cinque anni fa: «Credevo di aver già dato abbastanza al Signore. Mi sentivo sicura, pensavo che non mi avrebbe più chiesto altro dopo la morte di Paolo, ma non funziona così», mi ha detto sorridendo della sua ingenuità. «Il Signore più ci ama e più esige, e non chiede mai più di quanto ciascuno può dargli. Da me sapeva che poteva chiedere tanto, evidentemente…». E poi un’altra certezza, fondata sulla prima: «Noi non ci siamo divisi, nemmeno la morte ha potuto farlo. Giuseppe è salito al cielo da Paolo e io sono rimasta qui con Maria, ma un giorno saremo ancora tutti insieme. Vorrà dire che avrei dovuto attendere quattro mesi di missione in Iraq prima di rivederlo, invece aspetterò qualche anno».
Così diceva e così dice. Ma soprattutto così vive: non predica da uno scranno né teorizza da una cattedra, ma con semplicità estrema e disarmante riferisce ciò che vive sulla sua pelle. Da questa consapevolezza discende il suo diritto di parlare.
L’immagine di quella ragazza con il Vangelo in mano allora fece il giro d’Italia e non solo, entrò nelle nostre case e scosse le nostre coscienze. A chi le chiedeva come potesse perdonare lei opponeva la sua logica rigorosa e ineluttabile, anch’essa fondata sulla fede: «Gesù ci ha lasciato il comandamento di perdonare settanta volte sette, cioè sempre… Non vedo allora perché debba sembrare così eccezionale se un cristiano perdona: per un credente semmai dovrebbe essere strano il contrario».
«Tutta la sua vita è stata eroica»
E Giuseppe? Chi c’era dietro l’uniforme del giovane vicebrigadiere? Quale motivazione lo aveva spinto a partire per le missioni di pace all’estero? Ed era un eroe? Il fatto di morire dilaniato da un’autobomba basta per essere definito tale? Nella retorica delle cerimonie spesso è così.
Ma Giuseppe era un uomo degno di essere amato e scelto da una donna come Margherita. Lascio a lei le parole per spiegarlo: «Io penso che mio marito non ha fatto nulla di straordinario il giorno che l’hanno ucciso, la sua straordinarietà è nei 38 anni vissuti al servizio degli ultimi, non certo in una bomba che gli è scoppiata addosso. Anzi, quel giorno in fondo, come direbbe lui, si è lasciato fregare. È un’intera esistenza che ti fa eroe, non la sfortuna di un evento… Se proprio dobbiamo usare questo termine, preferirei dire che mio marito ha fatto della sua vita un atto eroico».
Un eroismo che per concretizzarsi non ha scelto la guerra ma la via dell’amore per il prossimo, in primo luogo i bambini. La svolta è avvenuta il giorno in cui Paolo è morto e in suo padre è nata l’esigenza di andare ovunque miseria, violenza e malattia mettessero a repentaglio la vita di tanti bambini come il suo. Per Paolo non c’era più nulla da fare, ma molto invece si poteva per milioni di altri figli sparsi nel mondo e in ognuno vedeva quello che aveva perduto. Sono centinaia le foto che lo ritraggono circondato da bambini in Albania, Kosovo, Bosnia e poi Iraq, decine le testimonianze che raccontano di quel Carabiniere che, cascasse il mondo, riusciva a fare arrivare dall’Italia container di giocattoli, cioccolato, medicinali, attrezzi per la scuola, omogeneizzati, latte in polvere, soluzione fisiologica per neonati… E proprio a Nasiriyah quelle incubatrici che mancavano: «Non è accettabile che bambini sani mi muoiano in braccio solo perché qui gli ospedali sono così poveri che non c’è un’incubatrice, che manca il cibo per nutrirli», telefonava alla moglie. E Margherita dall’Italia provvedeva, seguiva le sue istruzioni, bussava alle porte che lui, con la sua contagiosa voglia di fare e una vitalità che spaccava le montagne, era riuscito a guadagnare alla sua causa. A Nasiriyah lo chiamavano “il brigadiere dei bambini” e quando spariva sapevano tutti dov’era, nell’ospedale pediatrico a dare una mano, a spendersi fino all’ultima energia, sempre con quel suo sorriso di ragazzone ironico e contento.
L’abbraccio di Giovanni Paolo II
La sua prima “missione all’estero”, in fondo, era stata però sotto casa, in un altro ospedale pediatrico, il Santobono di Napoli in cui era morto suo figlio: dopo il funerale, Giuseppe si fece forza e tornò tante volte tra i piccoli malati oncologici anche se ciò gli costava un dolore insopportabile. In seguito andò a cercarli altrove, i bambini, dove soffrono di più, dove infuria la guerra, in terre lontane. Lì ritrovò la sua pace e quel Dio da cui in fondo non si era mai allontanato. In Albania addirittura, senza rivelare nulla a Margherita, esaudì il suo più grande desiderio, si preparò al sacramento della Cresima e, in combutta con il suo comandante, organizzò a sorpresa il viaggio affinché lei lo raggiungesse in missione: «Sei una moglie eccezionale – le ha scritto quel giorno – e, non potendoti risposare, ti ho scelto come madrina».
Il 15 novembre del 2003, dopo quattro mesi di Iraq, lui e i suoi compagni sarebbero tornati a casa. Ma il 12 novembre, tre giorni prima, un camion carico di tritolo si avventa sulla caserma dei Carabinieri a Nasiriyah e uccide diciannove italiani: la più grave perdita di nostri uomini dalla Seconda guerra mondiale. Paradossalmente proprio il 15 novembre i ragazzi tornano, ma nella stiva di un aereo militare, avvolti nei tricolore. Quello stesso giorno Margherita riceve l’abbraccio di Giovanni Paolo II: è andata in incognito in Sala Nervi, confusa tra gli ottomila dell’Unitalsi ricevuti dal Papa, ma la gente l’ha riconosciuta, è la vedova che due giorni prima alla televisione aveva scioccato tutti parlando di perdono, e l’applauso è lunghissimo. Al Papa sussurra di pregare perché Gesù continui a darle quella forza di cui ha bisogno, lui, già molto malato, le risponde con una carezza e la sua silenziosa benedizione.
Il seme di Nasiriyah, titolo che io e Margherita oggi abbiamo dato al libro che racconta tutto questo, è il grano che deve morire per dar vita alla pianta. È Paolo che muore ma è anche la folla di bambini che vivono grazie a Giuseppe e senza di lui oggi non sarebbero al mondo. È Giuseppe che muore ma è anche l’associazione subito dopo fondata da sua moglie per continuare le sue missioni nel mondo. “Giuseppe e Margherita Coletta – Bussate e vi sarà aperto”, si chiama. I primi che hanno bussato sono proprio i figli degli iracheni: di chi le aveva preso tutto.
La commozione di Ritanna Armeni
Nella prefazione al libro, scritta dall’inviato del Tg5 Toni Capuozzo, la morale: «C’è molto male, in giro, ma anche il bene sa essere contagioso». Nella postfazione di Ritanna Armeni, giornalista non credente, la più bella gratificazione: «Nella vicenda di Giuseppe e di Margherita c’è una risposta alla guerra che non conoscevo, che non smentisce quello che di peggio si pensa di essa, ma afferma una capacità per me non immaginabile di trascenderlo e superarlo… Giuseppe Coletta era andato in Iraq in missione di pace. E mai definizione appare più vera… Nel carabiniere Coletta c’è una normalità nell’abnegazione e una semplicità nel dono della vita che supera l’eroismo, o meglio lo riconduce alla normalità della vita. Margherita, sua moglie, è una donna cui la fede ha dato una saggezza che è, per chi scrive, inspiegabile, e quindi specialissima… Dalla guerra – ci dicono – si può uscire migliori, si può trovare la ragione per fare del bene. Ecco, questo non lo sapevo e neppure lo immaginavo. E questo mi sembra davvero un miracolo».
Tempi 3 Novembre 2008
di Lucia Bellaspiga
Cinque anni fa stupì l’Italia perdonando i terroristi che a Nasiriyah le avevano portato via Giuseppe. Oggi porta avanti la missione di pace del “brigadiere dei bambini” nel mondo. A cominciare dall’Iraq
«Se amate quelli che vi amano che merito avete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori». Chi pronunciava queste parole davanti alle telecamere dei giornalisti che affollavano la sua casa di San Vitaliano (Napoli) a poche ore dalla strage di Nasiriyah era Margherita Coletta. Era il 12 novembre del 2003. In braccio teneva Maria, 2 anni appena, e da poche ore aveva saputo che suo marito, il vicebrigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta, era tra i morti del sanguinoso attentato in Iraq. L’abisso le si leggeva in faccia, il suo era il volto del dolore, palpabile, disumano, ma in quel momento la sua fede di granito, più forte dei trecento chili di tritolo che avevano squassato la sua esistenza e quella di altre diciotto famiglie italiane, reggeva di fronte alla prova: «La nostra vita è tutta qua dentro», diceva a se stessa e ai giornalisti indicando il Vangelo.
Una prova che Margherita, 33 anni soltanto, aveva già dovuto affrontare: poco tempo prima il loro bambino, Paolo, era morto di leucemia. Giuseppe allora era arrabbiato con Dio, per un anno non era più entrato in chiesa, Margherita no, lei anche in quei giorni era la più forte: «Noi non possiamo conoscere i disegni di Dio, ma abbiamo un’unica grande certezza ed è che Dio ci ama. Lui non può volere il nostro male, dunque se ha permesso questo è per darci un giorno un bene maggiore. Io non posso capire, ma mi fido e mi affido».
Le stesse parole che, con strazio ancora più grande, piegata dal dolore ma mai spezzata, mi ha ripetuto quei giorni di cinque anni fa: «Credevo di aver già dato abbastanza al Signore. Mi sentivo sicura, pensavo che non mi avrebbe più chiesto altro dopo la morte di Paolo, ma non funziona così», mi ha detto sorridendo della sua ingenuità. «Il Signore più ci ama e più esige, e non chiede mai più di quanto ciascuno può dargli. Da me sapeva che poteva chiedere tanto, evidentemente…». E poi un’altra certezza, fondata sulla prima: «Noi non ci siamo divisi, nemmeno la morte ha potuto farlo. Giuseppe è salito al cielo da Paolo e io sono rimasta qui con Maria, ma un giorno saremo ancora tutti insieme. Vorrà dire che avrei dovuto attendere quattro mesi di missione in Iraq prima di rivederlo, invece aspetterò qualche anno».
Così diceva e così dice. Ma soprattutto così vive: non predica da uno scranno né teorizza da una cattedra, ma con semplicità estrema e disarmante riferisce ciò che vive sulla sua pelle. Da questa consapevolezza discende il suo diritto di parlare.
L’immagine di quella ragazza con il Vangelo in mano allora fece il giro d’Italia e non solo, entrò nelle nostre case e scosse le nostre coscienze. A chi le chiedeva come potesse perdonare lei opponeva la sua logica rigorosa e ineluttabile, anch’essa fondata sulla fede: «Gesù ci ha lasciato il comandamento di perdonare settanta volte sette, cioè sempre… Non vedo allora perché debba sembrare così eccezionale se un cristiano perdona: per un credente semmai dovrebbe essere strano il contrario».
«Tutta la sua vita è stata eroica»
E Giuseppe? Chi c’era dietro l’uniforme del giovane vicebrigadiere? Quale motivazione lo aveva spinto a partire per le missioni di pace all’estero? Ed era un eroe? Il fatto di morire dilaniato da un’autobomba basta per essere definito tale? Nella retorica delle cerimonie spesso è così.
Ma Giuseppe era un uomo degno di essere amato e scelto da una donna come Margherita. Lascio a lei le parole per spiegarlo: «Io penso che mio marito non ha fatto nulla di straordinario il giorno che l’hanno ucciso, la sua straordinarietà è nei 38 anni vissuti al servizio degli ultimi, non certo in una bomba che gli è scoppiata addosso. Anzi, quel giorno in fondo, come direbbe lui, si è lasciato fregare. È un’intera esistenza che ti fa eroe, non la sfortuna di un evento… Se proprio dobbiamo usare questo termine, preferirei dire che mio marito ha fatto della sua vita un atto eroico».
Un eroismo che per concretizzarsi non ha scelto la guerra ma la via dell’amore per il prossimo, in primo luogo i bambini. La svolta è avvenuta il giorno in cui Paolo è morto e in suo padre è nata l’esigenza di andare ovunque miseria, violenza e malattia mettessero a repentaglio la vita di tanti bambini come il suo. Per Paolo non c’era più nulla da fare, ma molto invece si poteva per milioni di altri figli sparsi nel mondo e in ognuno vedeva quello che aveva perduto. Sono centinaia le foto che lo ritraggono circondato da bambini in Albania, Kosovo, Bosnia e poi Iraq, decine le testimonianze che raccontano di quel Carabiniere che, cascasse il mondo, riusciva a fare arrivare dall’Italia container di giocattoli, cioccolato, medicinali, attrezzi per la scuola, omogeneizzati, latte in polvere, soluzione fisiologica per neonati… E proprio a Nasiriyah quelle incubatrici che mancavano: «Non è accettabile che bambini sani mi muoiano in braccio solo perché qui gli ospedali sono così poveri che non c’è un’incubatrice, che manca il cibo per nutrirli», telefonava alla moglie. E Margherita dall’Italia provvedeva, seguiva le sue istruzioni, bussava alle porte che lui, con la sua contagiosa voglia di fare e una vitalità che spaccava le montagne, era riuscito a guadagnare alla sua causa. A Nasiriyah lo chiamavano “il brigadiere dei bambini” e quando spariva sapevano tutti dov’era, nell’ospedale pediatrico a dare una mano, a spendersi fino all’ultima energia, sempre con quel suo sorriso di ragazzone ironico e contento.
L’abbraccio di Giovanni Paolo II
La sua prima “missione all’estero”, in fondo, era stata però sotto casa, in un altro ospedale pediatrico, il Santobono di Napoli in cui era morto suo figlio: dopo il funerale, Giuseppe si fece forza e tornò tante volte tra i piccoli malati oncologici anche se ciò gli costava un dolore insopportabile. In seguito andò a cercarli altrove, i bambini, dove soffrono di più, dove infuria la guerra, in terre lontane. Lì ritrovò la sua pace e quel Dio da cui in fondo non si era mai allontanato. In Albania addirittura, senza rivelare nulla a Margherita, esaudì il suo più grande desiderio, si preparò al sacramento della Cresima e, in combutta con il suo comandante, organizzò a sorpresa il viaggio affinché lei lo raggiungesse in missione: «Sei una moglie eccezionale – le ha scritto quel giorno – e, non potendoti risposare, ti ho scelto come madrina».
Il 15 novembre del 2003, dopo quattro mesi di Iraq, lui e i suoi compagni sarebbero tornati a casa. Ma il 12 novembre, tre giorni prima, un camion carico di tritolo si avventa sulla caserma dei Carabinieri a Nasiriyah e uccide diciannove italiani: la più grave perdita di nostri uomini dalla Seconda guerra mondiale. Paradossalmente proprio il 15 novembre i ragazzi tornano, ma nella stiva di un aereo militare, avvolti nei tricolore. Quello stesso giorno Margherita riceve l’abbraccio di Giovanni Paolo II: è andata in incognito in Sala Nervi, confusa tra gli ottomila dell’Unitalsi ricevuti dal Papa, ma la gente l’ha riconosciuta, è la vedova che due giorni prima alla televisione aveva scioccato tutti parlando di perdono, e l’applauso è lunghissimo. Al Papa sussurra di pregare perché Gesù continui a darle quella forza di cui ha bisogno, lui, già molto malato, le risponde con una carezza e la sua silenziosa benedizione.
Il seme di Nasiriyah, titolo che io e Margherita oggi abbiamo dato al libro che racconta tutto questo, è il grano che deve morire per dar vita alla pianta. È Paolo che muore ma è anche la folla di bambini che vivono grazie a Giuseppe e senza di lui oggi non sarebbero al mondo. È Giuseppe che muore ma è anche l’associazione subito dopo fondata da sua moglie per continuare le sue missioni nel mondo. “Giuseppe e Margherita Coletta – Bussate e vi sarà aperto”, si chiama. I primi che hanno bussato sono proprio i figli degli iracheni: di chi le aveva preso tutto.
La commozione di Ritanna Armeni
Nella prefazione al libro, scritta dall’inviato del Tg5 Toni Capuozzo, la morale: «C’è molto male, in giro, ma anche il bene sa essere contagioso». Nella postfazione di Ritanna Armeni, giornalista non credente, la più bella gratificazione: «Nella vicenda di Giuseppe e di Margherita c’è una risposta alla guerra che non conoscevo, che non smentisce quello che di peggio si pensa di essa, ma afferma una capacità per me non immaginabile di trascenderlo e superarlo… Giuseppe Coletta era andato in Iraq in missione di pace. E mai definizione appare più vera… Nel carabiniere Coletta c’è una normalità nell’abnegazione e una semplicità nel dono della vita che supera l’eroismo, o meglio lo riconduce alla normalità della vita. Margherita, sua moglie, è una donna cui la fede ha dato una saggezza che è, per chi scrive, inspiegabile, e quindi specialissima… Dalla guerra – ci dicono – si può uscire migliori, si può trovare la ragione per fare del bene. Ecco, questo non lo sapevo e neppure lo immaginavo. E questo mi sembra davvero un miracolo».
Tempi 3 Novembre 2008