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Articoli vari Novembre 2008

10 novembre 2008
Martini non sa quando comincia e finisce la vita (anche lui)

Sentite qui. “Siccome credo nella vita eterna, su quella temporale, fisica, di questa terra, posso transigere, sfumare, variare a seconda dei tempi e della storia e delle culture, e alla fine nascere e morire sono misteri sui quali ciascuno può e deve giudicare secondo la propria sensibilità. Contro un’etica non negoziabile della vita, dal concepimento alla morte naturale, c’è il relativismo cristiano della libertà che decide”. L’altro giorno ho letto queste cose, che mi sono permesso di parafrasare e mettere tra virgolette, in una pagina di giornale. E ho visto che erano firmate dal cardinal Martini. Sabato prossimo devo parlare del “concepito” a una riunione di medici cattolici che mi hanno gentilmente invitato. Dovrò dire che il concepito è un essere misterioso di cui è difficile stabilire lo status di “persona” o “individuo”, come dice il cardinale? E se dirò il contrario, se dirò di sapere perfettamente che cosa sia un concepito, e che è una persona, un individuo, andrò contro il pensiero di un principe della chiesa? Sarò giudicato un oltraggioso ateo devoto che predica una religione civile, non sa niente della vita eterna, e vuole ridurre il cristianesimo a una banale teoria etica?

Carlo Maria Martini è un esegeta, teologo e pastore universalmente rispettato, e con suo merito. Il celebre gesuita viene proposto da alcuni ambienti come una specie di “altro Papa”, insomma un’autorità di immenso rilievo, e una personalità venerabile, nel cattolicesimo mondiale. La sua idea delle cose, in molti aspetti essenziali, differisce da quella considerata prevalente nei magisteri di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il dissenso particolare, a parte grandi questioni sospese che secondo Martini dovrebbero utilmente essere ridefinite in un Concilio Vaticano III, verte sull’etica del nostro tempo, specie sul controverso rapporto tra la nostra mentalità, l’insieme delle nostre conoscenze scientifiche, la nostra capacità di sperimentare e operare nel campo della medicina e della biogenetica, e la vita umana. Ma anche sul resto, su materie decisive come la liturgia, la concezione moderna del clero e del laicato, il metodo di lettura e interpetazione delle scritture e del messaggio di Gesù Cristo, Martini ha un punto di vista spiccatamente personale, che arricchisce la chiesa e la cultura di un’opinione e di un’esperienza culturale e teologica molto pesanti, e influenti.

Da banditore laico del valore assoluto, non negoziabile, non relativizzabile, della vita umana, mi è capitato e mi capita di convergere, talvolta entusiasticamente ma in genere abbastanza sobriamente, con le posizioni dei Papi, e di Benedetto in particolare. Ci ho messo del mio, nel bene e nel male, in questi conflitti che oppongono chiesa e mondo, dall’aborto all’eutanasia alla procreazione assistita alla contraccezione eccetera. Il mio punto di vista non è strettamente religioso né magisteriale né dogmatico. E’ o cerca di essere un orientamento genericamente umanistico e razionale, secolare, che però non si lascia intimidire e tacitare dalla versione ideologicamente secolarizzata del conformismo nichilista corrente, quello per cui niente è vero e stabile, tutto è sfuggente e storico, e dunque la vita di questa particella della natura che è l’uomo va considerata con il beneficio dell’inventario tecno-scientifico. La vita sarebbe per così dire a disposizione di chi la voglia o debba manipolare per il bene supremo della causa della conoscenza e del benessere umano materialisticamente inteso, la fitness senza buonumore e senza una anche minima scintilla di felicità e di bene a cui, per dirla corta, ci siamo banalmente ridotti.

Mi ha dunque molto deluso e irritato il testo del cardinal Martini pubblicato dal Corriere della Sera di martedì 5 novembre, tratto da una pubblicazione dell’Università di don Verzè, e intitolato: “Inizio e fine, i due misteri della vita – Carlo Maria Martini: difficile stabilire quando un essere si possa chiamare ‘persona’ o ‘individuo’”. Martini spende molte parole per argomentare una tesi corta e chiara, la stessa, più o meno, esposta sulle pagine del Foglio dal teologo laico Vito Mancuso, il coraggioso scrittore e pensatore che si batte per la rifondazione della fede cristiana, per la scrematura dalla fede cristiana di ciò che in essa a suo giudizio è morto e sepolto (e non si tratta di poca cosa, si tratta di un corpo di dottrina piuttosto ingombrante). Mancuso dice che il cristianesimo non deve essere ridotto a materialismo volgare, a bios, come tende a fare un certo magistero cattolico, e che nella considerazione del valore della vita la parte del leone la fa il suo carattere spirituale. Perciò, almeno nella questione del testamento biologico inteso come legge dello stato, l’opinione di Mancuso, che per il resto è un chiaro antiabortista, è che deve prevalere la libertà dell’anima individuale su ogni altra considerazione. Ho riassunto e semplificato, ma nella sostanza è così.

Martini la pensa come Mancuso. Ma ho l’impressione che vada molto oltre, sia pure senza dichiararlo, sia pure nell’esitazione e nel tremore che ogni persona capace di speranza prova parlando di queste faccende decisive. Ho avuto l’impressione che il risultato sia un certo grigiore gesuitico, un argomentare ambiguo e intriso di negatività, una prova di relativismo cristiano, ma non nel senso ovvio e buono che si potrebbe addebitare alla teoria relativistica, per esempio, del minor danno. A leggere il testo viene fuori un elemento ovvio per un cristiano che abbia letto e meditato i vangeli: la vita vera è l’altra, quella emancipata dal peccato e dalla morte che la resurrezione garantisce per l’eterno a chi ha creduto. Ma da questa verità di fede, con un movimento del pensiero che a me sembra integralistico, poco rispettoso dei termini dell’alleanza di fede e ragione, Martini conclude che la vita fisica è relativizzabile, ché “non è facile stabilire il momento preciso della morte” e “non è facile stabilire quando cominci esattamente una vita umana, soprattutto quando un essere possa essere chiamato ‘persona’ o ‘individuo’ e sia soggetto di diritti e doveri”.

Forse a Martini era sfuggito, ma Barack Obama, nella peggiore delle sue risposte ai problemi del nostro tempo, quando un pastore evangelico gli aveva domandato a che punto cominci la vita umana, aveva risposto che “la domanda è al di sopra delle mie competenze”, e poi aveva impapocchiato una di quelle solite tiritere parascientifiche con le quali si usa offuscare ciò che abbiamo di più chiaro sotto gli occhi, e anche sotto a lente del microscopio: che un atto d’amore genera un figlio, cioè una vita umana unica e irripetibile, e che il concepito è il frutto immediato del concepimento, il concepito è il nome naturalistico dell’individuo prodotto dall’amore. Tutto il testo di Martini è la negazione radicale delle ragioni profonde che avevano condotto una parte della società secolare a battersi con la chiesa contro il tentativo di sfondare ogni confine e ogni pudore nella legge sulla fecondazione artificiale. La fede nella vera vita è il punto di partenza, nonostante espressioni prudenziali e di convenienza, per un ragionamento che nega l’indisponibilità assoluta della vita umana nell’epoca degli aborti forzati e di stato in Asia, della pianificazione familiare culturalmente coatta in tutto l’occidente, dell’aborto seriale, selettivo ed eugenetico protetto dall’indifferenza morale della società e dei governi, dell’eutanasia - anche infantile - secondo il modello venuto dall’Olanda. La curiosità verso la vita e verso le questioni etiche generalmente presenti a un punto di vista umano mi ha portato alla viva curiosità verso la “vita vera” e la fede dei cristiani. Ma se un cardinale di così vasta influenza brandisce la fede nella resurrezione e nella vera vita per svalutare e relativizzare la vita umana, e di questi tempi, allora mi sfugge il senso della sua fede. La sequela di Gesù non è una teoria etica, questo lo so bene; ma non voglio che dalla sequela del Risorto siano tratte idee etiche relativistiche buone per opacizzare i chiari confini che definiscono il nostro inizio, la nostra vita e la nostra morte. Mi sembra troppo.

Giuliano Ferrara


12 Novembre 2008

Dopo Mancuso e Martini qualche dubbio
ci assale, ma l`umanità è sempre relazione
VITA BIOLOGICA, UNA DIFESA
SENZA RIDUZIONISMI
Dalle colonne del Foglio di domenica 2 novembre il teologo Vito Mancuso lancia un allarme: le radicali posizioni della Chiesa in difesa della vita sarebbero la conseguenza di una visione antropologica cattolica malata di biologismo. È personale convincimento di Mancuso che si stia verificando una “strana convergenza”, naturalmente inavvertita, tra neodarwinisti e gerarchie ecclesiastiche su un comune assunto: la vita umana coincide con la vita biologica.
Un argomento su tutti sostiene questa tesi: dal momento che la Chiesa ritiene intoccabile la vita in qualsiasi condizione e al di là delle deliberazioni dell’individuo sul proprio destino, la vita umana risulta valutata come puro bios, trascurando la sua natura spirituale a vantaggio della sua natura prettamente vegetativa. La Chiesa sacrificherebbe lo spirito, la più alta forma dell’esistenza umana, alle ragioni del corpo. Non diversamente dai darwinisti, che addirittura negano l’esistenza dello spirito, al punto da ricondurre tutti i fenomeni umani alle trasformazioni della materia viva.
Sul Corriere della Sera del 5 novembre il cardinale Martini, con delicatezza di toni e riflessioni meditate, sottolinea un problema affine a quello evidenziato da Mancuso, sostenendo che “... sarebbe errato il trarre tutte le conclusioni (etiche ndr) solo dal valore assoluto della vita fisica”.
Cosa accade? Dal corpo della Chiesa e da credenti arrivano allarmi importanti. La questione va considerata con attenzione, perché pone interrogativi centrali soprattutto intorno al tema dell`eutanasia. Un individuo in una condizione di malattia presumibilmente irreversibile ha il diritto di mettere fine alla propria esistenza? Per la Chiesa, se lo fa, sbaglia. Ma limitare questa libertà, in nome del valore assoluto della vita, non significa svilire il significato stesso della vita, togliere senso alla sua natura libera? La Chiesa risponde "no", anzi essa stessa si schiera contro la cosificazione della vita umana e invoca la libertà tra i valori essenziali del Cristianesimo e del rapporto dell’uomo con Dio.
Diventa così necessario argomentare perché la difesa della vita biologica alla fine dell`esistenza non dimostra necessariamente un riduzionismo antropologico cattolico. Non intendiamo ribadire i motivi del no all’eutanasia, ma spiegare perché questa posizione non significa svalutazione della natura spirituale dell’uomo. Proviamo a farlo con ragioni che possano essere comprese, se non condivise, da credenti e non credenti.

Ragioniamo sui casi più dolenti e controversi: un malato privo di autonomia motoria, artificialmente alimentato o ventilato, cosciente, che chiede la somministrazione di una sostanza letale o la sospensione delle cure vitali. Il malato è costretto a chiedere la collaborazione di un altro individuo, ed è questa la principale controversia della situazione, perché le libertà individuali, come sempre, si sovrappongono. La Chiesa sostiene che il desiderio di porre fine all`esistenza sia un esercizio della libertà, non assecondabile, però, perché non rivolto al bene. É un male non perché la vita fisica è sentita come la più compiuta forma dell`esistere, ma per almeno altre due ragioni: la vita biologica artificialmente sostenuta è sofferta, ma ancora permette l`esercizio delle facoltà della coscienza (e la coscienza, come per i sani, serve per entrare in relazione con gli altri, non per fungere da tribunale unico); la malattia di un individuo suscita in chi sta intorno l`impegno e la carità della cura, tra le massime espressioni dello spirito umano. Non per questo la malattia è augurabile, ma, se c`è, ha un suo senso.

Difendendo la vita biologica si mantiene attiva una relazione, quella tra malato e curante, in cui lo spirito ha modo di manifestarsi. Un rapporto quasi dialettico che non esclude il dramma, anzi lo incarna. La sofferenza del malato può trovare lenimento, ma è il cuore del curante che è chiamato ad una testimonianza radicale di amore, ad un superamento di sé. Se il nostro diritto dovesse sancire che la risoluzione del paziente di scegliere la morte diventa vincolante per il curante, costretto a procurargliela, risulterebbe troncato un dialogo che coinvolge senz`altro l`anima spirituale più di quella vegetativa, per usare, in modo descrittivo, definizioni condivise sia dal professor Mancuso sia dal cardinal Martini.

Si potrebbe obiettare che procurare la soddisfazione del malato, esercitando un “libero atto pietoso” per assecondarne il desiderio di morire è comunque manifestazione umanissima di spiriti che si incontrano: un po` quello che è accaduto tra Welby e il dottor Riccio. In tal caso per la Chiesa si tratta sicuramente di esercizio di libertà, coscienza viva, ma non rivolta al bene. Questo giudizio negativo non significa disconoscere il valore della libertà. Più grave sarebbe una legge che definisse tempi e modalità di esecuzione del desiderio di morte del sofferente. Così il malato muore, ma con lui svanisce anche il curante, che da spirito agente si riduce ad esecutore. Mi sembra che ci sia in gioco qualcosa di più prezioso della sola natura biologica della vita.
Anche nel caso di un malato assistito artificialmente, ma non cosciente, il discorso può essere riproposto. Chiedere che nessuna legge imponga come obbligatoria la sospensione delle cure in base alla sola volontà del paziente, precedentemente espressa o presunta, significa sì preservare un`esistenza biologica, la sua natura vegetativa e forse ancora minimamente sensitiva, ma significa soprattutto preservare il cuore degli uomini dalla disperazione e dall`indifferenza verso il malato. In questo caso la relazione spirituale resta attiva e feconda finché c`è un essere umano disposto ad offrire cura. Il malato svolge un ruolo sociale insostituibile, insopprimibile: ci ricorda la nostra fragile caducità e ci impone lo sforzo della cura, non solo medica. Ce lo ricordano le profonde pagine sulla sofferenza di Teilhard de Chardin, nel suo libro L`energia umana. La Chiesa, in questo caso, difende la vita biologica del malato per un valore riconsciuto come intrinseco, ma si premura soprattutto della salute spirituale del curante. Un buon curante non diventerà tiranno, la qualità del suo spirito è la prima assicurazione contro l’accanimento terapeutico.
Lo stesso professore Mancuso sostiene qualcosa del genere nei suoi testi sui bambini gravemente colpiti da quelle disabilità che impediscono lo sviluppo delle facoltà intellettuali e spirituali: alcuni bambini restano anime vegetative e sensitive che non accederanno mai alla luce della ragione e dello spirito. Sarebbero perciò privi di dignità? No, perché vivono attraverso le cure e l`amore di chi sta loro intorno, il loro accesso allo spirito si completa attraverso la fioritura spirituale di chi li ama. Sarà per qualcuno disturbante che la sofferenza di un uomo, attraverso la sua cura, edifichi lo spirito di un altro, ma in fondo è questo lo scandalo del Cristianesimo. La difesa della vita biologica prelude dunque ad altro, abbastanza, forse, per negare l’accusa di un`antropologia cattolica contagiata dal biologismo.


13 novembre 2008
Una lettera delicata di saluto a don Sandro, che sapeva come salare il sale

Al direttore - Se ne è andato mons. Maggiolini, che da sempre – senza se e senza ma – ha sostenuto la nostra battaglia e la nostra testimonianza per la vita. Innamorato del Vangelo di Gesù Cristo, era attratto dal suo fascino ruvido e controcorrente, aborrendone ogni interpretazione dolciastra e buonista. Eppure, anzi proprio per questo, a tu per tu era dolcissimo con tutti. Ripeteva spesso, con Maritain, che i cristiani devono avere testa dura e cuore tenero, lamentando che spesso facciano l’opposto. Ho avuto il grande dono di conoscerlo personalmente, di averlo vicino nelle mie scelte decisive (l’amore, la fede, la famiglia, il movimento per la vita). Dovrei dunque sentirne il vuoto. Invece, pur con un bel magone, ne sento ancora più sicura e consolante la gran carezza, che ora si confonde con quella del Padre. Lo prendevo volentieri in giro per certi suoi manierismi stilistici, cui talora si affezionava con trasporto degno di miglior causa. Proprio per qualcuno di questi tic, credo fui il primo a capire da subito che dietro lo pseudonimo di Zeta (usato per un certo numero di interventi su Avvenire) si celava proprio lui. Naturalmente mi ripagava della stessa moneta: “Morirai vecchissimo come il purista Puoti, esclamando: ‘Me ne vo’, ma si può anche dire ‘Me ne vado’”. Un tratto costante del suo stile fu la paratassi, con quelle frasi brevi spezzettate da punti fermi. Era per far prima, mi diceva, e per arrivare all’essenziale. Ecco, mi accorgo che anch’io in questa letterina sono piuttosto paratattico: non per far prima, ma per far compagnia a don Sandro dinanzi all’essenzialità suprema della morte. Quasi sorella morte, come scrisse. Dove tempo ed eterno coincidono.
Gianni Mussini

PS. “…in realtà con la nostra posizione stiamo solo cercando di salvare la logica della donazione corporea. Vicendevole. Insomma, stiamo salvando quello che si definisce l’amore autentico. Diversamente io non vedo perché non si debba arrivare a una fecondazione artificiale al di fuori, anche, dell’utero materno. Ma più di tutto vorrei fosse chiaro un concetto, a tutti: un bambino non è un diritto, bensì un dono. E lì deve fermarsi la scienza”. (Corriere della Sera, 30 aprile 2005).

Da quel che ho capito, io che non l’ho mai conosciuto personalmente e ne seguivo soltanto le uscite in pubblico, don Sandro Maggiolini era un eroe di Bernanos, uno di quelli che avevano letto bene il passaggio evangelico sui cristiani come sale del mondo, e non miele, e se il sale perde il suo sapore, chi mai renderà di nuovo salato il sale? Un mite di ferro come Mussini così lo saluta. Condivido.

Giuliano Ferrara


14 novembre 2008
Fatele un’iniezione letale
Spero che adesso prendano Eluana e le facciano fare una morte dolce

Spero che adesso prendano Eluana Englaro e le facciano fare una morte dolce, visto che di questo si tratta. Mi auguro che non la lascino morire di fame e di sete, per giorni e giorni. Non dovesse essere lei a soffrirne, e ne dubito, ne soffrirebbe un sacco di gente semplicemente buona. Mi sembra meno ipocrita l’idea di iniezioni di morfina fino al collasso terminale di quel corpo reso infelice dalla mancanza della coscienza vigile e della relazione con gli altri, e tuttavia vivo e vegeto, come si dice con espressione infallibilmente antieutanasica. Ma forse la morfina no. Forse questi che hanno deciso l’abbandono di una portatrice di handicap devono elevarsi al livello di civiltà dei paesi in cui si ha il coraggio di praticare senza ipocrisia la pena di morte: un’iniezione letale, credo sia il Pentothal, e la cosa voluta è cosa fatta, il principio di autodeterminazione e la libertà di coscienza sono salvi.
Chi ieri ha parlato di pena di morte – quasi tutti – ha sbagliato.

La pena di morte, per quanto controversa o perfino odiosa, è un tentativo di giustizia retributiva. Qui è un abbandono, piuttosto. Qui è un uccidere per eccesso di amore o per eccesso di disamore. Fa lo stesso. Qui la giustizia non c’entra. Qui si eliminano persone vive teorizzando il loro diritto al suicidio assistito, anticipato da presunte o vere dichiarazioni. Qui non è occhio per occhio, fondamento del diritto eguale, qui è salito un gradino nella scala filosofica del nulla. Il nulla realizzato attraverso la legge e contro l’amore delle suore che avrebbero accudito Eluana com’è per altri cinquant’anni. Il perfetto rovesciamento del cristianesimo paolino: viva la legge, abbasso l’amore.

Mentre la vicenda di Eluana si avvia sulla china tragica che ha già inghiottito la pietà con Terri Schiavo, dovremmo ripetere il nostro appello: acqua per Eluana. Lo ripetiamo, ma senza speranza. Il sagrato del Duomo di Milano rischia di diventare un simbolo muto e cieco. Un cardinale come Martini è incerto sui confini della vita, in entrata e in uscita. Forse le chiese cristiane un giorno insegneranno che Eluana non è una persona, come il concepito che ha una struttura cromosomica unica e irripetibile ma non ha ancora capacità di comunicazione, così dicono. Tutto è molto confuso, almeno per una coscienza laica e razionale come la nostra. Secondo alcuni bisogna privare della dignità personale anche i neonati.

La via olandese è quella: si comincia con i vecchi, poi si procede con i bambini, e tutto come sappiamo nasce dalla grande eutanasia globalizzata che è lo sradicamento del concepito dal seno di sua madre o l’imminente procedura di avvelenamento dei bambini chiamata pillola RU486, tra breve anche in Italia. Domani vado a parlare a un convegno di medici cattolici a Milano. Il tema è: chi è il mio prossimo? Mi viene da piangere alla sola idea. Vorrei sapere che cosa ne pensa il professor Ratzinger, l’unico di cui mi fidi.

Giuliano Ferrara


14 novembre 2008
Silenzio su Eluana
Ma non sulla condanna eutanasica che la sopprime

Silenzio stampa su Eluana Englaro. Significa che non rincorreremo i dettagli e le cronache della sua fine. I particolari della morte per disidratazione si mangiano ogni residuo di requie e di pietà. Il nostro silenzio invece non calerà sulla visione eutanasica dell’esistenza ammantata da diritti nuovi e positivi, sullo spegnimento volontario dei tanti esseri umani distesi nei letti di casa e di ospedale e la presunta “futilità” del loro accudimento, sull’ordalia della vita distrutta in nome del diritto al benessere psicologico di chi è già nato, sull’idea che la coscienza sia una lastra radiografica, sulla norma giuridica che sbianca il mistero della fine, sulla banalizzazione attraverso la serializzazione analgesica.

Continueremo a ripetere che compito della medicina è mantenere viva la fiamma, non far sì che si trasformi in cenere. Fino all’ultimo il corpo in sonno, corpo che respira e pulsa, veglia e dorme, va considerato come residuo perdurante del soggetto che ha amato e che è stato amato, e come tale ha ancora diritto all’inviolabilità e alla carità. Non sarà facile combattere il silenzio che si vuole far calare su tutto, è facile identificare il male come male, ma in questo caso il male ha facce intrecciate al bene cui aneliamo: cure per i malati, sollievo dalla sofferenza, preservazione della vita.

Nel luglio 1990 il celebre neuropatologo Jürgen Pfeiffer andò a rendere omaggio alle piccole vittime dell’eutanasia nazista a Tubinga. Depose questa targa. “Disperse, oppresse e maltrattate vittime del dispotismo e della giustizia cieca, trovano qui per la prima volta riposo. La scienza che non ha rispettato i loro diritti e la dignità in vita, ha cercato di usare i loro corpi dopo la morte. Questa pietra sia un monito per i vivi”. Queste parole dovrebbero entrare a far parte della deontologia medica che ha tradito il giuramento scritto da un medico pagano quattrocento anni prima del cristianesimo. Non diremo come è morta Eluana. Quando dal terzo giorno di mancata alimentazione mostrerà la bocca secca, l’aspetto minuto, i tessuti senza liquidi, il battito del cuore accelerato, la pressione sanguigna che diminuisce, lo stato di veglia che cala, il respiro irregolare, i reni impacciati e le tossine che si accumulano bloccando la respirazione. Diremo che la prossima volta sarà più facile farlo. Ma soprattutto che Eluana è morta. E che ai morti, anello della democrazia assieme ai vivi e ai non nati, si deve il sacro rispetto. Perché l’uomo è sempre qualcosa di più di quel che seppellisce.


14 novembre 2008
La deriva verso l’eutanasia
La Cassazione abbatte l’ultima diga ed Eluana morirà di sete
Ricorso inammissibile. “La vita non è un bene disponibile”. Una condanna comminata “per un vizio di procedura”

L’ultima parola pronunciata dai giudici sulla vicenda di Eluana Englaro è una parola di morte. E’ stato respinto dalle sezioni unite della Cassazione, in quanto dichiarato inammissibile “per difetto di legittimazione all’impugnazione”, il ricorso della procura di Milano contro il decreto della Corte d’Appello che autorizzava a interrompere l’alimentazione e l’idratazione della donna in stato vegetativo da sedici anni, così come chiesto ripetutamente dalla famiglia. Un vizio di procedura, quindi, rimette ormai inesorabilmente in moto un’altra, terribile procedura: quella che porterà alla morte per fame e per sete Eluana, alla quale sarà staccato il sondino che la nutre e la idrata, così come avvenne negli Stati Uniti per Terri Schiavo.

Nel 2005, quando la Schiavo fu lasciata morire perché suo marito giurava che lei avrebbe preferito così, in molti dicemmo che in Italia, con le nostre regole giuridiche, quella cosa sarebbe stata impossibile. Da ieri non è più vero. Non è vero perché è stato confermato, attraverso una vicenda giudiziaria della quale ieri è stata scritta la pagina finale, che la volontà di una persona sulla propria vita e la propria morte possa essere desunta da dichiarazioni, ricordi e interpretazioni forniti da terzi. Non è vero perché è stata confermata l’invenzione del testamento biologico presunto, che si accompagna all’invenzione di un altro inesistente “diritto a morire”, e al cosiddetto “accertamento” dell’irreversibilità dello stato vegetativo, quando ormai la comunità scientifica rifiuta di definire irreversibile e permanente una situazione come quella nella quale, in Italia, versano Eluana e altri tremila come lei. Preferisce piuttosto parlare di “persistenza”, senza dedurne l’irreversibilità. E, ammesso che sia irreversibile, lo stato vegetativo non è comunque una malattia che conduce alla morte: è una fortissima disabilità del tutto compatibile con la vita. Eluana vive non grazie ad accanimento terapeutico, ma perché è semplicemente nutrita e dissetata attraverso un sondino.

Il presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Cuccurullo, lo ha detto ieri con chiarezza: “Quando si sospendono idratazione e alimentazione il paziente muore di sete, e non di malattia”. Monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia Pro Vita, parlava ieri, dopo la notizia della sentenza, di “una sconfitta anche per il diritto. Questa sentenza va contro ogni forma di diritto. Il diritto, da quando esiste, difende la vita, non dà la morte. Mi sembra che in questa vicenda ci sia arroganza di interpretazione che esula dalle competenze specifiche dei giudici”, tutto in direzione dell’eutanasia. “E’ la prima volta che una cittadina italiana morirà per una sentenza”, ha detto il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella. Da qualsiasi parte la si voglia guardare, la storia è proprio questa. A crollare rumorosamente, con l’ultima decisione della Cassazione, è una diga giuridica contro l’eutanasia, e a far detonare la carica di dinamite è stato il giudice civile.

Il giurista Alberto Gambino dice al Foglio che “fino all’ultimo abbiamo sperato che venisse riconosciuto l’evidente interesse pubblico e generale della vicenda di Eluana Englaro, a differenza di quanto sostenuto due giorni fa dal procuratore generale della Cassazione, Domenico Iannelli. Se non è pubblico e generale l’interesse relativo a un bene indisponibile come la vita di una persona, allora quale lo è? L’errore è stato commesso all’inizio. E’ stato quello di aver attribuito a un tutore il potere di mettere fine all’esistenza di una persona, mentre i poteri del tutore riguardano beni disponibili dell’incapace. E la vita non è un bene disponibile”. Ma la vera enormità, prosegue Gambino, “è che Eluana morirà per un problema di inammissibilità del ricorso, quindi un problema di procedura, evidenziato dal sostituto procuratore generale. Il quale, però, aveva anche detto che, nel merito, l’irreversibilità dello stato di Eluana non era stata sufficientemente accertata”.

Anche il grande penalista Giuliano Vassalli, presidente emerito della Corte Costituzionale, laico e libertario, aveva dichiarato al Foglio, in un’intervista di qualche mese fa, di non trovare “né nella decisione della Corte di Cassazione (si riferiva alla prima sentenza del novembre 2007, ndr) né nel decreto esecutivo della Corte civile d’appello di Milano, la base giuridica rispetto al diritto vigente”. Si riferiva allo stesso decreto che è stato ieri definitivamente ripristinato nella sua efficacia. E che, tra l’altro, autorizzandone la sospensione, suggerisce che l’idratazione e dell’alimentazione – solo nel caso di Eluana?– non siano semplici sostegni vitali, ma terapie. E già da ieri sera al Csm è stata formalizzata, e sottoscritta da tutti i gruppi dei togati, la richiesta di un intervento a tutela dei giudici della Cassazione che si sono pronunciati sul caso Englaro, “per difendere gli alti giudici dagli attacchi che si sono levati soprattutto dalla politica”.

Rubrica 53 11.11.2008
NON C’E’ PIU’ IRRELIGIONE

“Dawkins: ho perso la battaglia per l’ateismo”. “Il sacerdote del’ateismo: ho fallito”.
Questi due titoli del Corriere della sera (7/11) rilanciavano le dichiarazioni al Guardian del famoso ateo militante Richard Dawkins.
Sebbene chi lo intervistava lo confortasse con notizie d’irreligione montante, il professore di Oxford, sconsolato, vede “una maggiore influenza della religione”.
Aveva scritto un libro, “L’illusione di Dio”, che ha venduto un mare di copie, con “lo scopo dichiarato di ‘convertire’ i lettori all' ateismo”, e ora, a consuntivo, Dawkins “ammette di aver fallito”.
Qualcuno ritiene addirittura che abbia finito per portare acqua al mulino dei “nemici”.

FAMOLO STRANO

La campagna ateistica lanciata sugli autobus di Londra per esempio è stata ideata da Ariane Sherine proprio con l’appoggio di Dawkins.
Ecco lo slogan: “Probabilmente Dio non esiste, smettete quindi di preoccuparvi e godetevi la vita”.
Probabilmente? E’ difficile immaginare un’idea più controproducente.
Innanzitutto da atei militanti, che pretendono di convincere gli altri, si esige che proclamino con certezza che Dio non esiste. Se neanche loro ne sono sicuri, chi pretendono di convincere?
Chiunque ricordi la celebre “scommessa” di Pascal (un genio della matematica e del calcolo, oltreché grande pensatore cristiano) sa che quel “probabilmente” basta ed avanza per scommettere sull’esistenza di Dio. E’ assai più conveniente.
In pratica lo slogan è un clamoroso autogol. Anzi due. Perché, in qualche modo, dà ragione a chi – con Dostoevskij – afferma “se Dio non c’è tutto è permesso”.
Tesi aborrita proprio dal pensiero laico che rivendica un suo codice morale.

Fanatismo

Stando a quello slogan, chi è certo che Dio non esiste e ne è ben felice, se la dovrebbe spassare. Non dovrebbe certo consumare i suoi anni in una faticosa propaganda dell’ateismo. Anche perché ritiene ovvio che Dio è una favola. Nessuno spreca i suoi giorni per convincere gli altri che i draghi non esistono.
Dawkins dovrebbe essere il primo ad applicare lo slogan che stava scritto sui bus di Londra: “Godetevi la vita”.
Invece ha dedicato l’esistenza a quella missione, si è fatto in quattro, con uno zelo che rasenta il fanatismo.
Russel Stannard, un fisico che si è occupato di rapporti fra scienza e Dio, intervistandolo, anni fa, nel libro “La scienza e i miracoli”, si diceva incuriosito dalla strenua lotta di Dawkins.
Sembra ossessionato da Dio. Ha versato fiumi di inchiostro. E’ uno degli intellettuali che più pensa a Dio. Ricorda un tipo del romanzo di Graham Greene, “La fine dell’avventura”.
Costui stava sempre ad Hyde Park a comiziare contro il cristianesimo, con un tale impegno che la protagonista del romanzo, Sara, da sempre agnostica, sentendolo tuonare di continuo, cominciò a porsi seriamente la domanda su Dio perché non si può odiare così il nulla.
Alla fine lei si converte e muore quasi in fama di santità.

Grande vecchio

Il padre dell’ateismo filosofico-scientifico moderno, quello a cui tutti si sono abbeverati, da mezzo secolo, è Antony Flew, 82 anni, grande carriera accademica alle spalle fra Oxford e gli Stati Uniti, che però, nel dicembre 2004, ad un convegno a New York, ha annunciato di essersi completamente sbagliato.
Alla luce delle ultime scoperte della biologia (specialmente il Dna) e della fisica dichiara di arrendersi all’evidenza razionale dell’esistenza di Dio.
Il grande vecchio ha pure spazzolato sonoramente i “rampolli” del’ateismo, come Dawkins

Ma il suo eccezionale libro, peraltro godibilissimo, dove spiega i motivi di questa conversione, “There is God” (sottotitolo: “Come il più famoso ateo del mondo ha cambiato idea”), un libro che ha fatto scalpore in America, da noi non esce. Perché?
Fonte: © Libero - 11 novembre 2008

Obama Abbronzato? Sentite cosa dicevano Voltaire e Marx 07.11.2008
“Ho detto a Medvedev che Obama ha tutto per andare d’accordo con lui: è giovane, bello e anche abbronzato”.
Bisogna essere molto faziosi e molto prevenuti per trasformare queste parole di Berlusconi in una gaffe.
Da due giorni si celebra l’elezione del primo presidente nero della storia americana e si esalta il suo fascino e la sua avvenenza. Ma se è Berlusconi a dirlo, allora ci si stracciano le vesti.
E’ evidente che il premier italiano - alla sua maniera affabile e scanzonata – elogia l’aspetto del neoeletto che egli palesemente trova invidiabile. Mi pare il contrario del razzismo.

Il razzismo è l’ideologia che inventa le razze e squalifica alcuni gruppi umani come “inferiori” o discriminabili.
E’ comico che la stessa cultura “politically correct” che pretende di giudicare gli elogi di Berlusconi come razzismo, poi veneri come fari di progresso degli intellettuali che, proprio su questo aspetto, hanno scritto cose sconcertanti.

Una rassegna di questi “illuminati” ci è fornita da Léon Poliakov, grande storico dell’antisemitismo. Nel volume “Il mito ariano” (pubblicato da Editori Riuniti) partiva dalla voce “Negri” che si trova nella celebre Enciclopedia di Diderot e D’Alembert.
“Quanto esplicitamente a Diderot, gli accadeva di proclamare la superiorità bianca per bocca del suo ‘buon selvaggio’ tahitiano e di filosofare sulla razza inferiore dei lapponi”.

Le nostre anime belle della Sinistra resterebbero di sasso nel leggere queste parole di Poliakov: “Così alcuni degli esponenti più accreditati dei Lumi ponevano le basi del razzismo scientifico del secolo successivo”.
Con ciò intendevano combattere la Chiesa e la sua dottrina dell’ “unità del genere umano” fondata sulla Bibbia, sulla Genesi. Si credette di attaccarla in nome di “presupposti apparentemente scientifici”.

Voltaire – sì, proprio quello che è venerato come il maestro della tolleranza – manifesta, dice Poliakov, “un esclusivismo a cui non si saprebbe dare altra qualifica che quella di razzista e di cui i suoi scritti sono una testimonianza altrettanto valida della sua vita”.
Egli, spiega Poliakov, situava “i Negri nel gradino più basso della scala: i Bianchi erano ‘superiori a questi negri, come i Negri alle scimmie e le scimmie alle ostriche’ ”.
E nel suo “Essai sur les moeurs et l’esprit des nations” dopo “aver stabilito che ‘è permesso soltanto a un cieco di dubitare che i Bianchi, i Negri, gli Albini… sono razze completamente diverse’, bollava con l’epiteto di animali soprattutto i Negri”. Per non dire degli “attacchi antiebraici” vergati dallo stesso Voltaire nel Dictionnaire.

E che dire del veneratissimo maestro laico David Hume? Poliakov ci ricorda certi suoi passi: “sono portato a sospettare che i Negri e in generale tutte le altre specie umane sono per natura inferiori ai bianchi”.
Stupefacenti poi le pagine del maestro della modernità, Hegel: “Il negro rappresenta l’uomo naturale in tutta la sua barbarie; bisogna compiere un’astrazione di tutto rispetto e moralmente elevata se si vuol comprenderlo; non si può trovare niente nel suo carattere che ricordi l’uomo”.
Ma sentiamo ancora Poliakov sui due autori del “Manifesto del partito comunista”.
“Per Engels come per Marx, era inteso che la razza bianca, portatrice del progresso, era più dotata delle altre razze.
Nella ‘Dialettica della natura’ per esempio, Engels scriveva che ‘selvaggi inferiori’ potevano ripiombare in ‘uno stato abbastanza vicino a quello dell’animale’; più avanti un ragionamento più preciso gli faceva concludere che i Negri erano congenitamente incapaci di capire la matematica”.

Per quanto riguarda “il pensiero di Marx” osserva Poliakov “restava influenzato dalle gerarchie germanomani”, si rifaceva all’ “idea dell’influenza del suolo” di Trémaux, un “determinismo geo-razziale, che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei Negri e dei Russi”.
Per non dire poi della sua prevenzione verso gli ebrei (pur essendo lui stesso ebreo).
“Nel suo scritto ‘La questione ebraica’, questa intolleranza era ancora velata dalla dialettica hegeliana; ma nel ritratto che egli faceva del suo amico e rivale Ferdinand Lassale” scrive Poliakov “tutti i pregiudizi e tutti i furori del razzismo volgare sembravano essersi dati appuntamento”.
Ecco cosa scriveva Marx: “Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto (a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro)… L’importunità dell’uomo è altresì negroide”.
Non sarebbe il caso, per il “pensiero progressista”, di fare una “piccola” revisione culturale?
Fonte: © Libero - 7 novembre 2008


Rubrica 52 04.11.2008
Martin peccatore

Andrea Galli sull’Avvenire (28/10) scrive: “E’ curioso a volte il destino. Uno aiuta gli ebrei a sfuggire alla persecuzione nazista e diventa ‘il Papa di Hitler’.
Un altro si propone come guida filosofico-spirituale del Terzo Reich, fa sfoggio di un radicale antisemitismo (…) e diventa il più grande filosofo del XX secolo”.

Questo duro attacco polemico prende spunto da un nuovo libro di Victor Farias, storico e filosofo cileno che già venti anni fa fece scalpore mettendo a tema i rapporti fra Martin Heidegger e il nazismo e che oggi torna a occuparsi del filosofo tedesco con “L’eredità di Heidegger, nel neonazismo, nel neofascismo e nel fondamentalismo islamico” (edizioni Medusa).
Libro che per tanti aspetti non convince.

Vattimo fuggente

Immediata è stata la reazione di Gianni Vattimo che Farias definisce “il più ortodosso heideggeriano italiano” (però di sinistra).
Sulla “Stampa” (29/10) tuona contro “Avvenire”, ammettendo che il filosofo tedesco “fu nazista nel 1933”, ma nega che sia stato “un militante antisemita”.
Secondo Vattimo “il fatto che Heidegger, come tanti intellettuali antifascisti italiani abbia continuato per anni ad avere la tessera del partito” è uno degli “indizi molto poco decisivi” citati da Farias.
Sennonché viene da chiedersi se questo argomento sia una difesa di Heidegger o una velata critica a quegli intellettuali italiani un tempo fascisti e poi antifascisti.
L’indulgenza di cui hanno beneficiato celebri intellettuali italiani, diventati in seguito maestri di antifascismo, può essere evocata per suggerire un analogo trattamento di Heidegger?
Ci si può chiedere se sia stata un’indulgenza eccessiva. E anche se la presa di distanza di Heidegger dal suo passato sia stata così profonda e convincente come la loro.

Cogli il Vattimo

Vattimo cerca di demolire l’attacco di “Avvenire” affermando che è provocato dal desiderio di parte cattolica di difendere Pio XII: “sostenendo che questo Papa fu un sincero oppositore del nazismo e salvatore di ebrei, bisogna contrapporgli qualcuno che faccia risplendere meglio la sua non indiscussa virtù”.
L’argomento di Vattimo appare assai debole, perché la difesa di Pacelli può essere fatta (ed è stata fatta) solo sugli atti da lui compiuti, senza i quali non avrebbe senso alcun paragone.
In secondo luogo per Vattimo “Avvenire” voleva “punire” Heidegger per aver abbandonato il cattolicesimo in cui era nato. Inoltre il quotidiano della Cei – secondo il filosofo – voleva fare una difesa dell’Occidente cristiano “con tanti saluti al terzo mondo e alla teologia della liberazione”.
Cosicchè la difesa vattimiana di Heidegger finisce insieme alla difesa della teologia della liberazione.
A questo punto sarebbe stato sensato aspettarsi da Vattimo, più che una risposta polemica ad “Avvenire”, una seria risposta a Farias. Anche perché nel suo “Non essere Dio”, Vattimo fa una considerazione filosofica e autobiografica molto interessante: “Per quanto possa sembrare incredibile, proprio approfondendo Heidegger si può arrivare facilmente a Marx”. E il capitolo successivo del suo libro infatti inizia così: “Diventare maoista”. Probabilmente Farias potrebbe osservare: “Appunto!”.

Anticristi

Tempo fa una diversa polemica scoppiò su un altro autore un tempo innominabile, Friedrich Nietzsche.
Fece discutere il saggio di Domenico Losurdo sulla rivista letteraria “Belfagor” (30 settembre 2002) dal titolo molto esplicito: “Come si costruisce l’innocenza di Nietzsche. Editori, traduttori e interpreti”.
L’autore metteva sotto esame le traduzioni italiane del filosofo ottocentesco. E pure Vattimo che, a suo avviso, “immerge in un bagno purificatore anche le pagine più inquietanti del filosofo”. Nietzschiano, heideggeriano, marxista e infine pure cristiano. Forse Vattimo è solo e da sempre “vattimista”.
Fonte: © Libero - 4 novembre 2008

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