«Un tema super politico»
Politica - ven 22 feb
Per la moratoria - Aborto? No, grazie
Intervista a Claudio Risé
Tratto da Il Foglio del 20 febbraio 2008
Tramite il blog di Claudio Risé
La lista per la moratoria sull’aborto è un gesto contro la politica ridotta ad amministrazione dell’esistente, incapace di cogliere il nuovo. Una lotta contro una cultura mortifera che contagia anche il “figlio scelto”
Milano. «La vedo come una grande battaglia per la sacralità della vita e in difesa del bambino non nato. Inoltre è un gesto contro la politica ridotta ad amministrazione dell’esistente, incapace di devozione al nuovo». Per questo Claudio Risé ha deciso di candidarsi nella lista contro l’aborto: una grande sfida culturale ma è anche una sfida propriamente politica, perché la politica è innanzitutto occuparsi di ciò che ha a che fare con la vita, con la vitalità di una comunità».
Psicoterapeuta, saggista, Risé da molti anni constata con gli strumenti del suo lavoro che nelle nostre società c’è una malattia grave, un problema posto come un macigno ad ostruire la strada del futuro, “l’accoglienza del nuovo”, come la chiama. «E’ una grande malattia dell’inconscio contemporaneo – dice – la perdita di responsabilità nei confronti di ciò che arriva, di ciò che è nuovo. E il figlio è l’arrivo nuovo per eccellenza. Una mancanza di affetto, di devozione, di “onoranza” direi. Così, per prima cosa, non ci si sente felici della vita che arriva: la si sente invece come una minaccia, è un grande complesso erodiaco che mina l’Occidente. E allora si vuole scegliere, laddove invece il nuovo, il figlio, è sempre stato innanzitutto qualcosa da accogliere».
Ma perché trasportare in politica un tema che sembra più adatto al suo lavoro di analista?
«Perché può essere l’occasione per far riflettere su ciò che riguarda tutti. Nessuno vuole toccare la legge 194, colpevolizzare le donne. Ma far riflettere sul carattere mortifero che l’aborto ha per tutta la collettività, questo sì. Questa è politica, va fatta. E’ una cosa che viene prima della politica, ma la condiziona».
Ci spieghi meglio questo passaggio.
«La politica di oggi, come la società che la esprime, è totalmente devota al mantenimento dell’esistente. Tendenzialmente rifiuta il nuovo, non crea condizioni adatte alla vita. E’ altamente simbolico che il governo Prodi avesse proposto di istituzionalizzare le “stanze del buco”: come dire la libertà di uccidersi, l’ordine sociale come organizzazione della morte.
Sarebbe notevole che l’altra parte politica accettasse di avere in sé il germe di una politica inversa, capace di esprimere devozione alla vita».
Altro che un tema di coscienza che non deve entrare in politica…
«Mi fa specie che l’abbiano detto anche cristiani, e addirittura esponenti del clero».
Vi contesteranno di essere contro le donne.
«Nessuno oggi mette in dubbio la loro autonomia. Ma io da molto tempo denuncio la sparizione del padre dalla nostra società, dall’ordine famigliare. E’ un danno enorme.
Alle donne bisogna rispettosamente ricordare questo: che il bambino lo portano in grembo loro, certo, ma non soltanto il bambino è altro da loro, ma è anche qualcuno che ha a che fare, che è in relazione con un altro, con il padre».
Sulla centralità della figura paterna, Risé ha promosso con altri docenti e personalità pubbliche un “Documento per il padre” in cui si sostiene tra l’altro che «per il bene dei figli, e della società, è necessario che al padre sia consentito di assumersi le responsabilità che gli toccano in quanto coautore del processo riproduttivo». Mentre invece, secondo Risé, le legislazioni abortiste – oltre alla gravità in sé della soppressione di vite umane indifese – hanno segnato anche l’eclissi della figura del padre.
Concorda, il professor Risé, con l’osservazione secondo cui oggi il vero “argomento” a favore dell’aborto non è più tanto l’autodeterminazione della donna («guardiamo le manifestazioni delle ex femministe: le ragazze di oggi non ci vanno, non hanno nessun timore da quel punto di vista»), ma quello della selezione, del diritto al figlio sano. La tentazione sottilmente eugenetica.
Fa un passo ulteriore, Risé: «C’è un danno indotto dalla cultura abortista che colpisce la società nel suo insieme, la sua vitalità. Colpisce anche i figli che nascono. Perché il figlio “desiderato” non è altro che il doppio del figlio rifiutato».
Ce lo può spiegare meglio?
«La mentalità introdotta dalle legislazioni abortiste, ed ora potenziata dalla fecondazione artificiale, ha trasformato il figlio in un “bambino desiderato”. Non accolto, non onorato, perché c’è, arriva. Ma scelto perché desiderato. Oppure non desiderato e allora rifiutato».
E’ più ancora della selezione genetica basata sull’eventuale malattia…
«Infatti. Il dato riscontrato da moltissimi terapeuti è che questo “essere bambino desiderato” non ha prodotto un incremento di felicità per il bambino, e poi per l’uomo che diverrà. Anzi è il contrario. Questi “figli scelti” soffrono una vera e propria sindrome da sopravvissuti.
I figli della generazione post legislazioni abortiste sanno che avrebbero potuto non nascere. Prima “l’esserci” veniva collegato alla natura, o a Dio. Adesso è avvertito come arbitrio dei genitori. E ne nasce un narcisismo malato, sempre bisognoso di rassicurazioni di essere voluti, amati, che è una grande malattia morale delle nuove generazioni. E’ sotto gli occhi di tutti!
Ecco, anche per questo dico che combattere la cultura dell’aborto ha un grande rilievo per tutta la società. Per la sua vitalità profonda. E’ politica».
Politica - ven 22 feb
Per la moratoria - Aborto? No, grazie
Intervista a Claudio Risé
Tratto da Il Foglio del 20 febbraio 2008
Tramite il blog di Claudio Risé
La lista per la moratoria sull’aborto è un gesto contro la politica ridotta ad amministrazione dell’esistente, incapace di cogliere il nuovo. Una lotta contro una cultura mortifera che contagia anche il “figlio scelto”
Milano. «La vedo come una grande battaglia per la sacralità della vita e in difesa del bambino non nato. Inoltre è un gesto contro la politica ridotta ad amministrazione dell’esistente, incapace di devozione al nuovo». Per questo Claudio Risé ha deciso di candidarsi nella lista contro l’aborto: una grande sfida culturale ma è anche una sfida propriamente politica, perché la politica è innanzitutto occuparsi di ciò che ha a che fare con la vita, con la vitalità di una comunità».
Psicoterapeuta, saggista, Risé da molti anni constata con gli strumenti del suo lavoro che nelle nostre società c’è una malattia grave, un problema posto come un macigno ad ostruire la strada del futuro, “l’accoglienza del nuovo”, come la chiama. «E’ una grande malattia dell’inconscio contemporaneo – dice – la perdita di responsabilità nei confronti di ciò che arriva, di ciò che è nuovo. E il figlio è l’arrivo nuovo per eccellenza. Una mancanza di affetto, di devozione, di “onoranza” direi. Così, per prima cosa, non ci si sente felici della vita che arriva: la si sente invece come una minaccia, è un grande complesso erodiaco che mina l’Occidente. E allora si vuole scegliere, laddove invece il nuovo, il figlio, è sempre stato innanzitutto qualcosa da accogliere».
Ma perché trasportare in politica un tema che sembra più adatto al suo lavoro di analista?
«Perché può essere l’occasione per far riflettere su ciò che riguarda tutti. Nessuno vuole toccare la legge 194, colpevolizzare le donne. Ma far riflettere sul carattere mortifero che l’aborto ha per tutta la collettività, questo sì. Questa è politica, va fatta. E’ una cosa che viene prima della politica, ma la condiziona».
Ci spieghi meglio questo passaggio.
«La politica di oggi, come la società che la esprime, è totalmente devota al mantenimento dell’esistente. Tendenzialmente rifiuta il nuovo, non crea condizioni adatte alla vita. E’ altamente simbolico che il governo Prodi avesse proposto di istituzionalizzare le “stanze del buco”: come dire la libertà di uccidersi, l’ordine sociale come organizzazione della morte.
Sarebbe notevole che l’altra parte politica accettasse di avere in sé il germe di una politica inversa, capace di esprimere devozione alla vita».
Altro che un tema di coscienza che non deve entrare in politica…
«Mi fa specie che l’abbiano detto anche cristiani, e addirittura esponenti del clero».
Vi contesteranno di essere contro le donne.
«Nessuno oggi mette in dubbio la loro autonomia. Ma io da molto tempo denuncio la sparizione del padre dalla nostra società, dall’ordine famigliare. E’ un danno enorme.
Alle donne bisogna rispettosamente ricordare questo: che il bambino lo portano in grembo loro, certo, ma non soltanto il bambino è altro da loro, ma è anche qualcuno che ha a che fare, che è in relazione con un altro, con il padre».
Sulla centralità della figura paterna, Risé ha promosso con altri docenti e personalità pubbliche un “Documento per il padre” in cui si sostiene tra l’altro che «per il bene dei figli, e della società, è necessario che al padre sia consentito di assumersi le responsabilità che gli toccano in quanto coautore del processo riproduttivo». Mentre invece, secondo Risé, le legislazioni abortiste – oltre alla gravità in sé della soppressione di vite umane indifese – hanno segnato anche l’eclissi della figura del padre.
Concorda, il professor Risé, con l’osservazione secondo cui oggi il vero “argomento” a favore dell’aborto non è più tanto l’autodeterminazione della donna («guardiamo le manifestazioni delle ex femministe: le ragazze di oggi non ci vanno, non hanno nessun timore da quel punto di vista»), ma quello della selezione, del diritto al figlio sano. La tentazione sottilmente eugenetica.
Fa un passo ulteriore, Risé: «C’è un danno indotto dalla cultura abortista che colpisce la società nel suo insieme, la sua vitalità. Colpisce anche i figli che nascono. Perché il figlio “desiderato” non è altro che il doppio del figlio rifiutato».
Ce lo può spiegare meglio?
«La mentalità introdotta dalle legislazioni abortiste, ed ora potenziata dalla fecondazione artificiale, ha trasformato il figlio in un “bambino desiderato”. Non accolto, non onorato, perché c’è, arriva. Ma scelto perché desiderato. Oppure non desiderato e allora rifiutato».
E’ più ancora della selezione genetica basata sull’eventuale malattia…
«Infatti. Il dato riscontrato da moltissimi terapeuti è che questo “essere bambino desiderato” non ha prodotto un incremento di felicità per il bambino, e poi per l’uomo che diverrà. Anzi è il contrario. Questi “figli scelti” soffrono una vera e propria sindrome da sopravvissuti.
I figli della generazione post legislazioni abortiste sanno che avrebbero potuto non nascere. Prima “l’esserci” veniva collegato alla natura, o a Dio. Adesso è avvertito come arbitrio dei genitori. E ne nasce un narcisismo malato, sempre bisognoso di rassicurazioni di essere voluti, amati, che è una grande malattia morale delle nuove generazioni. E’ sotto gli occhi di tutti!
Ecco, anche per questo dico che combattere la cultura dell’aborto ha un grande rilievo per tutta la società. Per la sua vitalità profonda. E’ politica».