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Dall’“antipolitica” nichilista alla transpolitica dei valori

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Dall’“antipolitica” nichilista alla transpolitica dei valori

I risultati delle elezioni del 13 aprile, quali essi siano, condizioneranno il futuro del nostro Paese nei prossimi anni. L’occasione è propizia per alcune riflessioni che, partendo dal dato di cronaca, si spingano al di là della politica contingente. Abbiamo scritto su Radici Cristiane che il vero problema oggi in Europa non è quello di vincere le elezioni, ma di riuscire a governare. E questo non solo quando si ottiene una esigua maggioranza in Parlamento,come è accaduto a Romano Prodi, ma anche quando si raggiunge una maggioranza ampia, come è successo nel 2001 e potrà succedere nel 2008 a Silvio Berlusconi.

Vincere è facile, perché il voto degli elettori tende sempre a “punire” il governo precedente; governare, dopo la vittoria elettorale, è difficile perché i problemi nazionali e internazionali sono sempre più complessi, i centri decisionali che dovrebbero affrontare questi problemi sempre più deboli e conflittuali; ma soprattutto perché manca alle coalizioni che assumono il potere una visione comune e unitaria del bene pubblico.

La causa principale del declino delle forme tradizionali di rappresentanza, come i partiti e i sindacati, non è la loro incapacità ad interpretare i sentimenti e i bisogni della gente, ma la mancanza di una dottrina sociale e di una filosofia della storia.

Sarebbe tuttavia ingenuo addossare ai nostri uomini politici la responsabilità di tutti i mali, cedendo alla tentazione demagogica dell’“antipolitica”.

Le classi dirigenti vivono alla giornata, immerse in quella stessa atmosfera di egoismo e pragmatismo che permea l’intera società. La causa principale della crisi delle forme partitiche di rappresentanza non è la loro incapacità di interpretare i sentimenti e i bisogni della gente, ma casomai, il fatto di non riuscire ad elevare i bisogni e i sentimenti dei cittadini e dei gruppi sociali ormai polverizzati in un vortice di interessi e di appartenenze in perpetuo conflitto.

Giuseppe De Rita, presidente del Censis ha parlato di “coriandolizzazione della società”, per connotare questa frammentazione del tessuto sociale che sperimentiamo nella vita quotidiana. Matthew Fforde, in una lucida analisi della società britannica, che può essere bene applicata all’Italia di oggi, usa il termine, più appropriato, di “desocializzazione”; il sociologo Zygmunt Baumann parla a sua volta di una società “liquida”, in cui si dissolvono non solo i tradizionali centri di potere, ma ogni forma, anche elementare, di aggregazione sociale.

La “vita liquida” di cui scrive Baumann è la vita precaria ed effimera dell’uomo contemporaneo: una vita all’insegna dell’ansia e dell’incertezza, priva di radici e di solidi appigli, inevitabilmente consumistica, perché si vive solo nel presente, immersi nella liquefazione di ogni valore e di ogni istituzione. Tutto ciò che viene liquidato viene consumato o, potremmo dire, tutto ciò che viene consumato, viene liquidato. Dai prodotti alimentari alle vite degli individui, tutto ciò che esiste deve essere oggetto di consumo, deve avere una data di consumo, deve essere smaltito.

«L’industria di smaltimento dei consumi – scrive Baumann – assume un ruolo determinante nell’ambito dell’economia della vita liquida» (La vita liquida, Laterza, Roma 2006, p. IX). Baumann è un sociologo e non è interessato a cogliere le cause profonde di un processo di cui fotografa l’esito simbolico nella discarica. Ma se le discariche sono la significativa espressione della società liquida in cui viviamo, occorre aggiungere che ciò che esse accolgono è soprattutto la spazzatura culturale e morale delle ideologie del Novecento.

Dalla putrefazione di queste ideologie, che pretendevano creare un “uomo nuovo” sulle rovine della Civiltà cristiana, sorge una nuova Rivoluzione, postmoderna, che assume la liquidità a paradigma e nei rifiuti sembra trovare l’espressione del suo nichilismo.

Il tentativo relativista e nichilista di liquefare, con la Modernità, i resti di ogni principio e di ogni istituzione solida, come la Chiesa e lo Stato, la famiglia e la proprietà, porta inesorabilmente al nulla, di cui la discarica è simbolo. Napoli, con la sua spazzatura, ha conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, ma il fenomeno dei rifiuti è planetario e la sporcizia, non è solo materiale, se l’allora cardinale Ratzinger, nella meditazione della Via Crucis del Venerdì santo del 2005, ne trovò tracce persino all’interno della Chiesa: negli uomini, non nel Corpo Mistico di Cristo, immacolato e impeccabile nella sua natura.

Dai vertici alla base della società, prima dell’“emergenza rifiuti” esiste oggi un’“emergenza morale”, che è il vero problema non solo dell’Italia, ma dell’intero Occidente, invaso da mali che vorrebbero condurlo al collasso finale.

La soluzione del problema non è l’“antipolitica”, ma semmai una visione “transpolitica”, ovvero una concezione del mondo che restituisca alla politica il suo fondamento primario, che è la legge divina e naturale, immutabile nei suoi precetti.

Se l’uomo è un essere fluido, in perpetua evoluzione, se la società è liquida, priva di cartilagini e di ossatura, la sua decomposizione è certa e alla decomposizione segue necessariamente la morte. Per ogni uomo politico e per ogni semplice cittadino, l’alternativa è chiara: o il ritorno all’ordine naturale e cristiano, o una dissoluzione progressiva della nostra civiltà occidentale e cristiana.

Nuovi popoli, nuove religioni sono alle porte, per accelerare quest’ora. Ma anche l’ora della rinascita può essere vicina, se nuove classi dirigenti decidano di opporre alla “via liquida” della postmodernità la “via solida” della Tradizione. E quale solidità maggiore si potrebbe immaginare di quella pietra di cui Gesù Cristo disse: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa» (Mt. 16, 18-19)?

(Roberto de Mattei)
(2008-03-28 17:47:59)

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