La tirannia di Fidel Castro
gio 21 feb
Barbarie di Alberto Ronchey
Tratto da Corriere della Sera del 21 febbraio 2008
Una volta Fidel Castro avrebbe confidato a Gabriel García Márquez di sentirsi deluso e scoraggiato dalla politica: «E' la cosa più amara della vita... ». L'esperienza sarà stata poco felice per lui, almeno rispetto alle ambizioni e alle attese. Ma è stata peggiore la sorte di molti cubani, sia il popolo degli espropriati e poi espatriati, sia i suoi stessi compagni rivoluzionari del 1959 soffocati poi dal dispotismo della palabra orientadora.
Sul principio, quando Herbert Matthews rese famoso Fidel divulgando i suoi proclami nazionalpopolari sul New York Times, ci si poteva illudere. Ancora negli anni Sessanta, viaggiando dall'Avana fino a Santiago fra le tierras coloradas del tabacco e del caffè o i campi di canna da zucchero, si poteva osservare con interesse quello sperimentale socialismo anarchico di natura, contadino e studentesco. Ma l'utopia tropicale non ha retto. Ha prevalso la tirannia, documentata ormai da una letteratura tanto vasta quanto spesso trascurata.
I residui estimatori di Castro non ricordano le denunce di Amnesty International sulle «condanne penali più lunghe del mondo». Vogliono ignorare le testimonianze dei perseguitati, anche i più illustri. Hubert Matos, già comandante leggendario della colonna «Guiteras», fu carcerato nell'Isla de Pinos. E Carlos Franqui? Aveva diretto sulla Sierra Maestra la radio Rebelde, ma fu costretto al rifugio in Italia, dove ha pubblicato memorie incontestate. Con l'accusa di reati d'opinione fu condannato a trent'anni di prigione Armando Valladares, 23 anni, poeta, graziato poi solo per gli ultimi dieci anni.
Già dall'inizio di simili cronache Le Monde, non certo influenzato da pregiudizi contrari, definiva Cuba «l'enfer de geôles castristes », mentre Jorge Semprun concludeva: «Cuba è un posto nel quale Fidel ha messo la gente in ginocchio». E non è ancora svelato il segreto di episodi come il suicidio di Haydée Santamaria o quello del presidente Dorticós Torrado. Prima o poi, se verrà mai aperto l'archivio degli enigmi cubani, sapremo tutto. Per ora, sul fenomeno castrista si replicano controversie tradizionali.
Da una parte, resistono l'infatuazione ideologica e l'ammirazione verso il personaggio. Per decenni da quell'isola dei Caraibi ha sfidato la superpotenza Usa, mentre la Cia tentava di eliminarlo e la sua immagine guerriera esaltava le folle dei fedeli che gridavano folclorici slogan di piazza: «Fidel seguro / a los yanquis dale duro ». A volte, Fidel agitava pistole. Il suo amico Ramon Vasconselos, al quale ne regalò una, osservò: «Si regala quel che si ama di più».
D'altra parte, secondo i contestatori del mito, la sua ideologia s'è ridotta infine a un'ossessione, la commistione tra primarie forme di nazionalcomunismo e iperboliche accuse contro el imperialismo yanqui, perché responsabile a suo giudizio del sottosviluppo nell'America centromeridionale usurpando finanche il nome di America. Ogni arretratezza storica, sotto il Rio Grande, sarebbe imputabile a quel male unico. Eppure, Fidel Castro s'è imposto a lungo sulla scena internazionale. Come prevedeva Theodore Draper, passerà forse alla storia come «uno dei grandi pseudo-messia del ventesimo secolo».
gio 21 feb
Barbarie di Alberto Ronchey
Tratto da Corriere della Sera del 21 febbraio 2008
Una volta Fidel Castro avrebbe confidato a Gabriel García Márquez di sentirsi deluso e scoraggiato dalla politica: «E' la cosa più amara della vita... ». L'esperienza sarà stata poco felice per lui, almeno rispetto alle ambizioni e alle attese. Ma è stata peggiore la sorte di molti cubani, sia il popolo degli espropriati e poi espatriati, sia i suoi stessi compagni rivoluzionari del 1959 soffocati poi dal dispotismo della palabra orientadora.
Sul principio, quando Herbert Matthews rese famoso Fidel divulgando i suoi proclami nazionalpopolari sul New York Times, ci si poteva illudere. Ancora negli anni Sessanta, viaggiando dall'Avana fino a Santiago fra le tierras coloradas del tabacco e del caffè o i campi di canna da zucchero, si poteva osservare con interesse quello sperimentale socialismo anarchico di natura, contadino e studentesco. Ma l'utopia tropicale non ha retto. Ha prevalso la tirannia, documentata ormai da una letteratura tanto vasta quanto spesso trascurata.
I residui estimatori di Castro non ricordano le denunce di Amnesty International sulle «condanne penali più lunghe del mondo». Vogliono ignorare le testimonianze dei perseguitati, anche i più illustri. Hubert Matos, già comandante leggendario della colonna «Guiteras», fu carcerato nell'Isla de Pinos. E Carlos Franqui? Aveva diretto sulla Sierra Maestra la radio Rebelde, ma fu costretto al rifugio in Italia, dove ha pubblicato memorie incontestate. Con l'accusa di reati d'opinione fu condannato a trent'anni di prigione Armando Valladares, 23 anni, poeta, graziato poi solo per gli ultimi dieci anni.
Già dall'inizio di simili cronache Le Monde, non certo influenzato da pregiudizi contrari, definiva Cuba «l'enfer de geôles castristes », mentre Jorge Semprun concludeva: «Cuba è un posto nel quale Fidel ha messo la gente in ginocchio». E non è ancora svelato il segreto di episodi come il suicidio di Haydée Santamaria o quello del presidente Dorticós Torrado. Prima o poi, se verrà mai aperto l'archivio degli enigmi cubani, sapremo tutto. Per ora, sul fenomeno castrista si replicano controversie tradizionali.
Da una parte, resistono l'infatuazione ideologica e l'ammirazione verso il personaggio. Per decenni da quell'isola dei Caraibi ha sfidato la superpotenza Usa, mentre la Cia tentava di eliminarlo e la sua immagine guerriera esaltava le folle dei fedeli che gridavano folclorici slogan di piazza: «Fidel seguro / a los yanquis dale duro ». A volte, Fidel agitava pistole. Il suo amico Ramon Vasconselos, al quale ne regalò una, osservò: «Si regala quel che si ama di più».
D'altra parte, secondo i contestatori del mito, la sua ideologia s'è ridotta infine a un'ossessione, la commistione tra primarie forme di nazionalcomunismo e iperboliche accuse contro el imperialismo yanqui, perché responsabile a suo giudizio del sottosviluppo nell'America centromeridionale usurpando finanche il nome di America. Ogni arretratezza storica, sotto il Rio Grande, sarebbe imputabile a quel male unico. Eppure, Fidel Castro s'è imposto a lungo sulla scena internazionale. Come prevedeva Theodore Draper, passerà forse alla storia come «uno dei grandi pseudo-messia del ventesimo secolo».