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E’ in nostro potere stare in paradiso fin da quaggiù, fin da questo momento.

Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it

E’ in nostro potere stare in paradiso fin da quaggiù, fin da questo momento

venerdì 21 dicembre 2007

«Rallegratevi nel Signore sempre” (Fil 4,4)… L’Apostolo esorta i cristiani a gioire perché la venuta del Signore, cioè il suo ritorno glorioso, è sicuro e non tarderà. “Ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino” (SS 1). In effetti, noi attendiamo con speranza certa la seconda venuta di Cristo, perché abbiamo conosciuto la prima. Il mistero di Betlemme ci rivela Dio-con-noi, il Dio a noi prossimo, non semplicemente in senso spaziale e temporale; Egli ci è vicino perché ha “sposato”, per così dire, la nostra umanità; ha preso su di sé la nostra condizione, scegliendo di essere in tutto come noi, tranne che nel peccato, per farci diventare come Lui. La gioia cristiana scaturisce pertanto da questa certezza: Dio è vicino, è con me, è con noi, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, come amico e sposo fedele. E questa gioia rimane anche nella prova, nella stessa sofferenza, e rimane non in superficie, bensì nel profondo della persona che a Dio si affida e in Lui confida.
Alcuni si domandano: ma è ancora possibile oggi questa gioia? La risposta la danno, con la loro vita, uomini e donne di ogni età e condizione sociale, felici di consacrare la loro esistenza per gli altri! La beata Madre Teresa di Calcutta non è stata forse, nei nostri tempi, una testimone indimenticabile della vera gioia evangelica? Viveva quotidianamente a contatto con la miseria, il degrado umano, la morte. La sua anima ha conosciuto la prova della notte oscura della fede, eppure ha donato a tutti il sorriso di Dio. Leggiamo in un suo scritto: “Noi aspettiamo con impazienza il paradiso, dove c’è Dio, ma è in nostro potere stare in paradiso fin da quaggiù e fin da questo momento. Essere felici con Dio (che è Amore) significa: amare come Lui, aiutare come Lui, dare come Lui, servire come Lui” (La gioia di darsi agli altri, p. 43). Sì, la gioia entra nel cuore di chi si pone al servizio dei piccoli e dei poveri. In chi ama così, Dio prende dimora, e l’anima è nella gioia. Se invece si fa della felicità un idolo, si sbaglia strada ed è veramente difficile trovare la gioia di cui parla Gesù. E’ questa, purtroppo, la proposta delle culture che pongono la felicità individuale al posto di Dio, mentalità che trova un suo effetto emblematico nella ricerca del piacere ad ogni costo, nel diffondersi di droghe come fuga, come rifugio in paradisi artificiali, che si rivelano poi del tutto illusori» [Benedetto XVI, Angelus, 16 dicembre 2007].

Benedetto XVI, al n. 30 dell’Enciclica Spe salvi, riassume le tappe di un percorso che accade a livello personale e sociale, nel succedersi dei giorni: molte speranze - più piccole o più grandi - diverse nei diversi periodi della vita. A volte può sembrare che una di queste speranze soddisfi l’uomo totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze. “Nella gioventù - osserva il Papa - può essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell’uno o dell’altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che gli possa mai raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato la speranza dell’instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politicamente scientificamente fondata, sembrava essere diventato realizzabile. Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero ‘regno di Dio’. Questa sembrava finalmente la speranza grande e realistica, di cui l’uomo ha bisogno. Essa era in grado di mobilitare - per un certo tempo - tutte le energie dell’uomo; il grande obiettivo sembrava meritevole di ogni impegno. Ma nel corso del tempo apparve chiaro che questa speranza fugge sempre più lontano. Innanzitutto ci rese conto che questa era forse una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per me. E benché il “per tutti” faccia parte della grande speranza - non posso, infatti, diventare felice contro o senza gli altri - resta vero che una speranza che non riguardi me in persona non è neppure una vera speranza… pur essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento del mondo, il mondo migliore di domani non può essere il contenuto proprio e sufficiente della nostra speranza…noi abbiamo bisogno delle speranze - più piccole e più grandi - che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza - non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge…E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita è “veramente” vita”.

Ravvivare la vigilanza dell’Avvento significa vivere sempre e preparare così noi stessi e il mondo alla giustizia
Se da una parte il Natale ci fa commemorare il prodigio incredibile del darsi definitivo del Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo, nell’incarnazione del Figlio Unigenito del Padre dalla Vergine Maria nella grotta di Betlemme, dall’altra ci esorta anche ad attendere, vegliando e pregando nell’agire e soffrire per amore, lo stesso Redentore, che nell’ultimo giorno “verrà a giudicare i vivi e i morti”. Non è, purtroppo, che noi oggi, anche noi credenti, scegliamo e operiamo sempre davanti al Giudice; tutti però aspettiamo giustizia. Vediamo tanta ingiustizia nel mondo, nel nostro piccolo mondo, nella casa, nel quartiere, ma anche nel grande mondo degli Stati, delle società. Come credenti noi aspettiamo che venga in concreto chi può fare giustizia e a modo suo: il Signore Gesù Cristo come Giudice. Aspettare giustizia nel senso cristiano indica soprattutto che noi stessi cominciamo a vivere sotto gli occhi del Giudice, aspettiamo nella realtà la giustizia. Vigilanza dell’Avvento vuol dire vivere sotto gli occhi del Giudice e preparare così noi stessi e il mondo alla giustizia. In questo modo, quindi, vivendo e scegliendo responsabilmente sotto gli occhi del Dio - Giudice, possiamo aprire il mondo alla venuta del suo Figlio, predisporre il cuore ad accogliere “il Signore che viene”. Il darsi definitivo di Dio in un bambino, che circa duemila anni or sono i pastori adorarono in una grotta di Betlemme, non si stanca mai di visitarci sacramentalmente nella liturgia ed esistenzialmente nel vissuto fraterno di comunione della vita quotidiana, mentre come pellegrini siamo incamminati verso il pieno compimento del Regno. Nella sua attesa il credente si fa allora interprete delle speranze dell’intera umanità; l’umanità, anzi ogni uomo anela a quella giustizia in connubio con la grazia, con l’amore che perdona, propria del Giudice Gesù che non è solo giustizia e non è solo amore e così, benché spesso in modo inconsapevole, aspetta Dio, aspetta la salvezza che solo Dio può donarci cioè una speranza affidabile in virtù della quale noi possiamo affrontare con serenità e gioia anche il nostro presente, una meta così grande da giustificare anche la pesantezza del cammino. Con la morte, la scelta che ha preso forma nel nostro essere in ogni giorno di vita, diventa definitiva - questa sua vita sta, è totalmente, eternamente manifesta davanti al Giudice. La scelta, che nel corso della vita sta davanti al Giudice può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se se stesse la consapevolezza di essere dono nel proprio e altrui essere, come di tutto il mondo che le circonda e quindi il desiderio della verità e la disponibilità a dipendere con la preghiera dal Donatore divino che è amore.. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse e nelle loro relazioni l’amore. E’ questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno. Dall’altra parte possono esserci persone purissime, pienamente consapevoli del proprio e altrui essere dono del Donatore divino e quindi in preghiera, azione e sacrificio, totalmente dipendenti da Lui, che tutto sperano da Lui, totalmente aperte al prossimo - persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d’ora l’intero essere, anticipando il paradiso e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono cioè felici anche nelle tribolazioni.
Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l’uno né l’altro è il caso normale dell’esistenza umana. Nella gran parte degli uomini - così possiamo supporre - rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male - molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima. Che cosa avviene di simili individui, che sembrano la maggioranza, quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa accadrà? Se il fondamento dell’unione con Cristo rimane prima e oltre la morte il fuoco del suo amore brucerà ogni sporcizia fino in fondo nello stato di purificazione ultraterrena; diversa la situazione di chi ha detto fino al termine della sua fase terrena il no a Cristo. Comune per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il “fuoco” per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell’eterno banchetto nuziale.

L’avvenimento del discorso sulla laicità pronunciato dal presidente francese Sarkozy nella basilica di san Giovanni in Laterano il 20 dicembre 2007.
Dicendosi totalmente in sintonia con Benedetto XVI per cui la laicità non può essere negazione del passato e quindi non si possono tagliare le radici cristiane della Francia e dell’Europa dal momento che una nazione che ignori l’eredità etica, spirituale, religiosa della propria storia commette un crimine contro la propria cultura, contro quel miscuglio di storia, di patrimonio, d’arte e di tradizioni popolari che impregna profondamente il nostro modo di vivere e di pensare. Strappare le radici vuol dire perdere il significato, vuol dire indebolire il cemento dell’identità nazionale e inaridire ulteriormente i rapporti sociali che tanto hanno bisogno di simboli e di memoria.”Per questo- ha affermato il Presidente - dobbiamo tenere insieme i due capi della corda: accettare le radici cristiane della Francia, e anche valorizzarle, continuando a difendere la laicità giunta a maturità. Ecco il senso del passo che ho voluto compiere stasera in san Giovanni in Laterano. E’ giunto il momento che, in uno steso spirito, le religioni, in particolare la religione cattolica che è la nostra religione maggioritaria, e tutte le forze vive della nazione guardino insieme alla posta in gioco del futuro e non più solo alle ferite del passato. Condivido l’opinione di Benedetto XVI quando ritiene nella sua ultima enciclica, che la speranza sia una delle questioni più importanti del nostro tempo. Dal secolo dei Lumi, l’Europa ha sperimentato molte ideologie. Di volta in volta ha riposto le speranze nell’emancipazione degli individui, nella democrazia, nel progresso tecnico, nel miglioramento delle condizioni economiche e sociali, nella morale laica. Nessuna di quelle diverse prospettive - che chiaramente non metto sullo stesso piano - è stata in grado di rispondere al bisogno profondo degli uomini e delle donne di trovare un senso all’esistenza.
“Certo - ha proseguito il Presidente - fondare una famiglia, contribuire alla ricerca scientifica o alle scienze umane e sociali, insegnare, lottare per le proprie idee, in particolare quella della dignità umana, guidare un Paese, possono dare senso a una vita. Sono queste piccole o grandi speranze “che giorno per giorno, ci mantengono in cammino” per riprendere le parole dell’enciclica del Santo Padre. Non rispondono però alle domande fondamentali dell’essere umano sul senso della vita, sul mistero della morte. Non sanno spiegare cosa accada prima della vita e dopo la morte.
“Tali domande appartengono a tutte le civiltà e a tutte le epoche. Non hanno perso nulla della loro pertinenza. Al contrario. Gli agi materiali sempre maggiori nei Paesi sviluppati, la frenesia del consumo, l’accumulo di beni sottolineano ogni girono di più la profonda aspirazione degli uomini e delle donne a una dimensione che li superi, perché la soddisfano meno che mai.
“Quando le speranze si realizzano, prosegue Benedetto XVI, appare che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più grande di ciò che egli possa mai raggiungere… Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile, né più di quanto si possa sperare dalle autorità politiche ed economiche, la nostra vita si riduce a essere privata di speranza”.
Il Presidente ha concluso con alcune citazioni, la prima di Eraclito: “Se non si spera l’insperabile, non lo si riconoscerà mai”. Ha citato Bernanos: “L’avvenire è qualcosa che si domina. Non si subisce l’avvenire, lo si fa… L’ottimismo è una falsa speranza ad uso dei vili… La speranza è una virtù, una determinazione eroica dell’anima. La forma più alta di speranza è la disperazione dominata”.

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