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Don Gelmini e Pasolini

Tolta la nozione di peccato, la cultura moderna non sa rendere giustizia

Tratto da Il Foglio del 29 dicembre 2007

Nabokov ha fatto del suo eroe, che si faceva Lolita, una bambina di tredici anni, un simbolo di liberazione sessuale, estetica e morale per generazioni di occidentali. Pasolini, che si faceva una quantità di ragazzi di vita, amandoli scrutandoli raccontandoli pagandoli e seducendoli, ha fatto di se stesso il poeta italiano della condizione umana moderna ed è stato riconosciuto come l’usignolo della chiesa cattolica, un martire dell’amore, come lui voleva. E don Gelmini?

Il castello di accuse trapelato sui giornali, per il tono e le circostanze delle chiamate in causa, per i soggetti che chiamano in causa quel prete, è fragile come un castello di carte. La storia di un ottantenne che molesta i giovani della sua comunità tirando in ballo “nomi di politici” per ricattarli e con trucchi di seduzione da giovane checca (“mi piaci con i capelli corti”) ha lo stesso valore della caccia alle streghe di Rignano Flaminio e di molte altre storie di ordinario esorcismo di massa (non l’esorcismo buono, quello che dovrebbe essere esercitato con cura presbiteriale e professionale in ogni diocesi, secondo Benedetto XVI). Ma questa è un’opinione, suffragata da parecchi fatti, che attende solo di essere smentita da un giusto processo, in cui a contare non siano solo le parole confuse delle vittime bensì i riscontri, se ci siano, e in cui si tenga nel dovuto conto il fatto che una cosa sono le responsabilità penali addebitate a don Gelmini e un’altra cosa sono le eventuali responsabilità nel malaccorto difendersi dalle accuse con un’azione sospetta di cover up, di depistaggio delle indagini. Si può non aver nulla da nascondere, ma qualcosa di importante da difendere, quando la propria reputazione sia decisiva per le sorti di un impero della carità al termine di una lunga vita di impegno sociale, comunque lo si giudichi. Siamo nel paese in cui Gaetano Salvemini esortava a riparare all’estero chiunque fosse accusato di aver rubato o stuprato la Madonnina che protegge Milano dalla più alta guglia del suo Duomo.

La faccenda appassionante e inquietante è un’altra. Nasce nel caso fosse accertato per vero, allo stato delle cose un’ipotesi assurda ma un’ipotesi, l’omoerotismo di un vecchio prete, il suo bisogno di dare e ricevere piacere o libero amore, se preferite, a ragazzi che gli pullulano intorno in un contesto comunitario in cui si cercano speranza e salvezza per vite perdute. Allora, cari nabokoviani, cari sperimentalisti letterari, cari pasoliniani: vogliamo dare al prete immerso nella “condizione umana” dell’omosessualità (Walter Veltroni), innamorato dei ragazzi al punto di gridare ancora adesso apertamente che non semetterà mai di abbracciarli, bisognoso del loro sesso o della loro affettività (dicono così gli psicologi), la stessa chance laica di essere considerato in modo sfaccettato e complesso, se non la sorte di diventare perfino simbolo poetico del dramma eterno e torbido dell’amore maledetto? Perché mai sui giornali della borghesia intellettuale italiana emerge solo e soltanto la dimensione criminale, che resterebbe parte del dramma in un serio racconto laico, e non anche l’altra, quella dimensione tollerante e sublimata che ha permesso agli stessi giornali di essere nabokoviani e pasoliniani? Come mai considerate elegante e universale lezione letteraria lo stupro di Lolita, come mai considerate profetica e corsara assunzione di responsabilità verso il proprio mondo poetico le marchette notturne di Pasolini, se poi non vi riesce di capire la perdizione di un prete?

Siamo sempre allo stesso punto, cari amministratori della coscienza laica divisa, quella coscienza falsa, ideologica, che non dà a ciascuno il suo e non fa giustizia nemmeno sul piano simbolico. Avete cacciato dal vocabolario la parola “peccato”, non sapete dunque né giudicare né perdonare, né assolvere né condannare, sapete soltanto sublimare il secolo e aggredire il clero, vi esercitate in questo sport banale. Nella prima metà del Novecento si leggeva lo straordinario racconto di Bernanos, il diario di un curato di campagna, e si sapeva di che cosa si parlava quando si parlava di un prete e dei suoi tormenti. Nella seconda metà del Novecento si è letto di fretta Lolita o Ragazzi di vita e si è pensato che, tolto il peccato, ferrovecchio in mano alla chiesa e ai suoi confessionali, sarebbe rimasto il diritto eguale, l’unicuique suum, e invece siete approdati a una giustizia morale divisa, dalla pena di morte in moratoria ma con l’aborto di massa in efficiente funzione, dall’omoerotismo dei preti esorcizzato senza sapienza ai fasti conformisti della cultura gay.

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