Nativity, un film da vedere
di:Armando Fumagalli il 12-12-2006
NATIVITY
The Nativity Story
Regia di Catherine Hardwicke; sceneggiatura di Mike Rich; con Keisha Castle-Hughes, Oscar Isaac, Ciaran Hinds; prodotto da Marty Bowen e Wyck Godfrey per Temple Hill Entertainment e New Line Cinema, 101’; Usa 2006.
Nativity è uno dei frutti del successo di The Passion of Christ di Mel Gibson. Solo con questo illustre precedente si spiega che la New Line abbia subito accettato la proposta di Marty Bowen, un agente, cattolico e con esperienza professionale più che decennale alla United Talent Agency, che aveva proposto a un suo cliente, lo sceneggiatore Mike Rich (Cercando Forrester, Un sogno una vittoria) di scrivere una storia sul Natale. Progetto subito accettato dalla New Line, e che ha portato Bowen a fare il grande salto da agente a produttore, fondando la Temple Hill Entertainment. Il film è stato fatto rapidamente: alcune fonti indicano che fra l’inizio della sceneggiatura e il giorno di uscita nelle sale è passato un anno esatto, cioè molto meno di quanto di solito capita per i film hollywoodiani.
Il film è stato fatto con le migliori intenzioni: si intuisce chiaramente che si è cercato di seguire l’esempio di The Passion in un impegno di sostanziale fedeltà al dato scritturistico, nel cast internazionale, nella forza e bellezza di alcune immagini. Il film ci è apparso quindi sostanzialmente corretto: una buona illustrazione del racconto biblico, anche se manca quella intuizione più profonda, quell’elaborazione teologica, quelle audaci sorprese visive e tematiche che, a dispetto delle polemiche che l’hanno accompagnato, fanno di The Passion un’opera maestra a cui –siamo sicuri- il tempo e il passare delle polemiche renderanno giustizia. Anche in Nativity come nel film di Gibson è da notare la presenza di molti attori italiani in parti secondarie, così come il contributo in alcuni settori artistici (per es. i costumi di Maurizio Millenotti) e l’uso di Matera come location per alcune scene.
La figura più riuscita del film ci è sembrato Giuseppe, interpretato da Oscar Isaac: un uomo giovane –come la più recente iconografia anche cinematografica e televisiva sta giustamente affermando- forte e tenero insieme, che accoglie con disponibilità e amore pieno di rispetto Maria e il suo mistero. Meno riuscita invece la figura di Maria: è senz’altro apprezzabile il tentativo di renderla più vicina allo spettatore contemporaneo, dandole il volto intenso della brava Keisha Castle-Hughes, ma nel complesso la sua consapevolezza e anche la sua forza interiore appaiono al di sotto di quello che i dati scritturistici e la tradizione teologica ci fanno supporre. Si fatica a vedere in lei la “piena di grazia” e non a caso questo termine in inglese è stato sostituito dalla “favorita” (the favored one” nell’annuncio che fa l’Arcangelo Gabriele alla giovane di Nazaret.
In questo può aver forse influito il fatto che lo sceneggiatore Mike Rich è protestante e non cattolico, così come ha tale formazione la regista Catherine Hardwicke (Thirteen, Lords of Dogtown), specializzata in film su teen agers. Al di là di questi aspetti più sottili, per un pubblico cattolico l’unico elemento veramente controverso del film può essere quello dei dolori del parto di Maria, che la tradizione cattolica (confermata dal Concilio Vaticano II e dall’ultimo catechismo) considera un lascito del peccato originale da cui Maria fu esentata, parlando di verginità non solo nel concepimento, ma anche nel parto e dopo il parto.
Il film si muove quindi su un buon livello: alcune immagini sono molto efficaci e riuscite, alcuni dialoghi fra Maria e Giuseppe sono molto belli. Il viaggio dei Magi è usato con funzione di alleggerimento –a volte con sfumature lievemente comiche-, mentre invece la presenza incombente di Erode, che scatenerà la strage degli innocenti, viene resa evidente più volte per rafforzare la tensione drammatica della vicenda. Il film si chiude con la fuga in Egitto, mentre udiamo le parole del Magnificat.
Nel complesso un buon film, dalla fattura molto professionale ed elegante, che pur senza aver raggiunto grandi vette artistiche e senza aver osato un’elaborazione drammaturgica più profonda, potrà rimanere come una attraente messa in scena degli eventi del Natale, adatta a un pubblico generalista.
di:Armando Fumagalli il 12-12-2006
NATIVITY
The Nativity Story
Regia di Catherine Hardwicke; sceneggiatura di Mike Rich; con Keisha Castle-Hughes, Oscar Isaac, Ciaran Hinds; prodotto da Marty Bowen e Wyck Godfrey per Temple Hill Entertainment e New Line Cinema, 101’; Usa 2006.
Nativity è uno dei frutti del successo di The Passion of Christ di Mel Gibson. Solo con questo illustre precedente si spiega che la New Line abbia subito accettato la proposta di Marty Bowen, un agente, cattolico e con esperienza professionale più che decennale alla United Talent Agency, che aveva proposto a un suo cliente, lo sceneggiatore Mike Rich (Cercando Forrester, Un sogno una vittoria) di scrivere una storia sul Natale. Progetto subito accettato dalla New Line, e che ha portato Bowen a fare il grande salto da agente a produttore, fondando la Temple Hill Entertainment. Il film è stato fatto rapidamente: alcune fonti indicano che fra l’inizio della sceneggiatura e il giorno di uscita nelle sale è passato un anno esatto, cioè molto meno di quanto di solito capita per i film hollywoodiani.
Il film è stato fatto con le migliori intenzioni: si intuisce chiaramente che si è cercato di seguire l’esempio di The Passion in un impegno di sostanziale fedeltà al dato scritturistico, nel cast internazionale, nella forza e bellezza di alcune immagini. Il film ci è apparso quindi sostanzialmente corretto: una buona illustrazione del racconto biblico, anche se manca quella intuizione più profonda, quell’elaborazione teologica, quelle audaci sorprese visive e tematiche che, a dispetto delle polemiche che l’hanno accompagnato, fanno di The Passion un’opera maestra a cui –siamo sicuri- il tempo e il passare delle polemiche renderanno giustizia. Anche in Nativity come nel film di Gibson è da notare la presenza di molti attori italiani in parti secondarie, così come il contributo in alcuni settori artistici (per es. i costumi di Maurizio Millenotti) e l’uso di Matera come location per alcune scene.
La figura più riuscita del film ci è sembrato Giuseppe, interpretato da Oscar Isaac: un uomo giovane –come la più recente iconografia anche cinematografica e televisiva sta giustamente affermando- forte e tenero insieme, che accoglie con disponibilità e amore pieno di rispetto Maria e il suo mistero. Meno riuscita invece la figura di Maria: è senz’altro apprezzabile il tentativo di renderla più vicina allo spettatore contemporaneo, dandole il volto intenso della brava Keisha Castle-Hughes, ma nel complesso la sua consapevolezza e anche la sua forza interiore appaiono al di sotto di quello che i dati scritturistici e la tradizione teologica ci fanno supporre. Si fatica a vedere in lei la “piena di grazia” e non a caso questo termine in inglese è stato sostituito dalla “favorita” (the favored one” nell’annuncio che fa l’Arcangelo Gabriele alla giovane di Nazaret.
In questo può aver forse influito il fatto che lo sceneggiatore Mike Rich è protestante e non cattolico, così come ha tale formazione la regista Catherine Hardwicke (Thirteen, Lords of Dogtown), specializzata in film su teen agers. Al di là di questi aspetti più sottili, per un pubblico cattolico l’unico elemento veramente controverso del film può essere quello dei dolori del parto di Maria, che la tradizione cattolica (confermata dal Concilio Vaticano II e dall’ultimo catechismo) considera un lascito del peccato originale da cui Maria fu esentata, parlando di verginità non solo nel concepimento, ma anche nel parto e dopo il parto.
Il film si muove quindi su un buon livello: alcune immagini sono molto efficaci e riuscite, alcuni dialoghi fra Maria e Giuseppe sono molto belli. Il viaggio dei Magi è usato con funzione di alleggerimento –a volte con sfumature lievemente comiche-, mentre invece la presenza incombente di Erode, che scatenerà la strage degli innocenti, viene resa evidente più volte per rafforzare la tensione drammatica della vicenda. Il film si chiude con la fuga in Egitto, mentre udiamo le parole del Magnificat.
Nel complesso un buon film, dalla fattura molto professionale ed elegante, che pur senza aver raggiunto grandi vette artistiche e senza aver osato un’elaborazione drammaturgica più profonda, potrà rimanere come una attraente messa in scena degli eventi del Natale, adatta a un pubblico generalista.