“Non si può uccidere, neanche per pietà”, afferma un filosofo del Diritto
Intervista al professor Mario Palmaro
ROMA, giovedì, 28 settembre 2006 (ZENIT.org).
Ha destato molto scalpore la lettera aperta, inviata mercoledì 21 settembre al Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, in cui Piergiorgio Welby (malato di distrofia muscolare progressiva), Co-Presidente dell’Associazione Luca Concioni, chiede di porre fine alla sua vita con quello che ha definito un “diritto all’eutanasia”.
Nella risposta, il Presidente della Repubblica ha auspicato un dibattito parlamentare. La vicenda ha suscitato una infinità di reazioni ed un dibattito tra contrari e favorevoli all’eutanasia.
Per cercare di fare il punto sulle implicazioni morali e legislative della vicenda, ZENIT ha intervistato il professor Mario Palmaro, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università Europea di Roma e docente di Bioetica all’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorom”.
Il professor Mario Palmaro ha già trattato in maniera approfondita il tema, nel volume “Piccolo Manuale di Apologetica 2” – (Piemme 2006, pagg. 204, Euro 12,50).
La TV ha mostrato le immagini di un paziente in stato vegetativo persistente. Che senso ha vivere in quelle condizioni? Non è forse meglio morire che vivere così?
Palmaro: Queste parole dimostrano che il problema, nel dibattito sull’eutanasia, nasce da una domanda sbagliata. La questione non è: è meglio stare bene o stare male? essere sani o precipitare nel coma? Perché è ovvio che, messe le cose in questi termini, chiunque risponderà: molto meglio vivere nella pienezza delle proprie facoltà e funzioni. Ci mancherebbe. La vera domanda è un’altra: che cosa è lecito fare all’uomo di fronte a una malattia grave, a una menomazione, a un handicap, e a qualsiasi situazione di grave compromissione della salute? Si può uccidere per pietà? Questa è la domanda giusta.
D’accordo. Allora chiedo: perché non si dovrebbe sopprimere chi sta molto male, e magari desidera la morte?
Palmaro: Non si può uccidere mai una persona innocente, nemmeno se lei stessa lo desidera. Non c’è ragione al mondo che renda buona un’azione simile. Questo giudizio non dipende necessariamente da una concezione religiosa, ma è un elemento fondamentale della nostra civiltà giuridica. Gli esperti la chiamano “indisponibilità della vita”, e sta a indicare che non si può disporre a piacimento della vita dell’uomo. Non solo di quella altrui, ma perfino della propria.
E allora, come la mettiamo con il suicidio?
Palmaro: Il suicidio è un atto illecito, anche se l’ordinamento non lo punisce per ovvie ragioni. Togliersi la vita è un atto grave non solo sul piano morale, ma anche nella prospettiva giuridica. Infatti, la nostra vita è immersa in una rete di relazioni, e non possiamo dire che ucciderci è una faccenda che riguarda soltanto noi. Inoltre, togliersi la vita è un atto che comporta la negazione dell’essere. E’ l’affermazione che è meglio non vivere piuttosto che vivere. Imboccare questa strada significa contraddire un principio elementare dell’esistenza, secondo il quale tutto nell’uomo chiama alla vita, e normalmente si fa di tutto per salvare una vita, entro i limiti del lecito.
Del resto, mi chiedo: perché allora esiste nel codice penale di molti Stati il reato di “istigazione al suicidio”? Se il suicidio fosse un atto perfettamente lecito, consigliare qualcuno e perfino aiutarlo non sarebbe un male. Non esiste il reato di “istigazione all’elemosina”. Dunque, ammazzarsi non è una faccenda privata.
Ma, la libertà individuale dove va a finire con questo ragionamento?
Palmaro: Un uomo è in piedi sulla spallina di un ponte e sta per buttarsi giù. Intorno a lui poliziotti, infermieri, semplici cittadini tentano in tutti i modi di impedirglielo. E, se riescono, lo bloccano con la forza, contro la sua volontà. Perché lo fanno? Non dovrebbero rispettare la libera volontà di quell’uomo? Potrebbero per esempio verificare se ha dei buoni motivi per buttarsi giù. Potrebbero fargli firmare un modulo di consenso informato per “sgravarsi” da qualsiasi responsabilità. Perché non fanno nulla di tutto questo? E’ semplice: perché la vita è giuridicamente percepita come un valore intangibile, e la società tenta di impedire perfino il suicidio. Detto tutto questo, chiariamo un fatto: fra eutanasia e suicidio c’è una differenza molto importante, decisiva.
Qual è allora la differenza tra suicidio ed eutanasia?
Palmaro: Nel suicidio chi si uccide fa da sé. Dunque, non viene coinvolta una volontà terza. Invece, nell’atto eutanasico occorre necessariamente che una persona diversa dal sofferente – può trattarsi del medico, dell’infermiere, di un funzionario incaricato dallo Stato, di un parente, di un coniuge – compia uno o più atti idonei a provocare la morte di altro da sé. Sul piano giuridico c’è un salto di qualità drammatico, enorme: perché per legalizzare l’eutanasia, in qualsiasi forma, occorre autorizzare qualcuno a togliere la vita ad un altro uomo innocente, cioè che non sia in grado né voglia nuocere alla vita o all’incolumità di qualcuno.
Alcuni sostenitori estremi dell’eutanasia affermano che uccidere anche un innocente, può essere considerato un reato soltanto quando la vita di quell’innocente esprime una certa qualità…
Palmaro: Certo. E non si tratta di un’idea nuova. A Sparta si gettavano i bambini deformi dal Taigeto; nell’antica Roma dalla rupe Tarpea. In tempi molto più recenti, l’idea che l’uomo possa essere eliminato quando è anormale, ritenuto infelice, indegno di continuare a esistere, è stata riproposta con forza dal nazismo. Nel 1939 Adolf Hitler mise in piedi, con la collaborazione del suo medico personale, il dottor Karl Brand, una organizzazione che fosse in grado di eliminare in segreto una serie di tedeschi di pura razza ariana, con problemi. Qui dunque il razzismo non centra nulla. Il discrimine è “la qualità della vita”: un neonato con gravi deformità, un bambino con problemi di salute, un malato di mente, un mutilato reduce della prima guerra mondiale. Per tutti costoro Hitler e i medici di sua fiducia avevano preparato un piano, denominato “Operazione T4”, per ucciderli senza conseguenze giudiziarie.
Gli attuali sostenitori dell’eutanasia rifiutano il riferimento al piano di eutanasia nazista.
Palmaro: Si sbagliano. So perfettamente che oggi i fautori dell’eutanasia non sono dei nazisti, e che anzi sono spesso dei convinti antifascisti. Ma l’esperienza ci insegna che per avere idee naziste non è necessario essere dei nazisti. Nel 1935, dunque qualche anno prima dell’iniziativa sciagurata di Hitler, in Gran Bretagna viene fondata la British Euthanasia Society. La promuovono alcuni intellettuali come Gorge Bernard Shaw e Bertrand Russel. Anime liberali che però avevano un tragico punto in comune con la follia nazista: ergersi a padroni della vita, e a giudici della qualità di vita necessaria per continuare a vivere e a considerare degna una persona di essere tutelata e rispettata. La lettera [scritta da Hitler al suo medico personale Karl Brandt, con la quale lo incaricava di reclutare medici di provata fede nazista disposti a realizzare il “Piano T4”, ndr] con cui in Germania si dà avvio all’orribile mattanza, porta la data del 1° settembre 1939, ovvero l’inizio della Seconda Guerra Mondiale.
Resta però il fatto che nella Germania di Hitler la gente veniva uccisa senza il proprio consenso, o addirittura contro la volontà delle vittime.
Palmaro: E’ vero, nel “Piano T4” mancava il consenso degli interessati. Ma per quanto possa apparire inelegante, o politicamente scorretto, dobbiamo riconoscere che le ragioni di principio che muovevano Hitler e i suoi carnefici erano del tutto simili a quelle dei moderni fautori dell’eutanasia. Infatti, il percorso logico è il seguente: 1) ci sono persone che, secondo un nuovo criterio di vita umana, conducono un’esistenza priva di significato; 2) riteniamo che queste vite siano fonte di sofferenza per chi le conduce e per chi sta vicino a queste persone; 3) non abbiamo alcun sentimento di odio nei confronti di questi sofferenti, anzi li consideriamo meritevoli di stima e considerazione per quanto hanno finora fatto per la patria, o per la scienza, o per la democrazie; 4) non per odio ma per amore, per compassione vogliamo che queste persone siano finalmente liberate dal giogo di una vita biologica assurda; 5) per fare questo, lo Stato deve organizzarsi e garantire una via di uscita indolore. Fin qui, il punto di vista di Hitler, dei suoi giuristi, e dei medici che lo fiancheggiarono, e il punto di vista dei liberal radicali moderni non diverge affatto. Le due strade si separano quando alcuni nostri contemporanei – non tutti, per la verità – tirano in campo la questione del consenso, della richiesta del paziente.
La richiesta ed il consenso all’eutanasia, cambiano i termini della questione?
Palmaro: Innanzitutto, ci sono esempi recenti come il caso dell’Olanda, dove si è scoperto che ogni anno vengono “terminati” dei pazienti per i quali non vi è traccia del modulo di richiesta. E nessuno di loro, ovviamente, è tornato per lamentarsi del trattamento ricevuto. In secondo luogo, c’è il problema della definizione di questo consenso… scritto, orale, in preda al dolore, precedente, riferito da un parente. In terzo luogo, c’è il problema di tutti quei pazienti che non potranno più, o non potranno mai, a causa della loro patologia, esprimere una qualsiasi richiesta. Pensiamo a un handicappato grave fin dalla nascita; a un neonato; a un pazzo; a un comatoso che non abbia mai detto o scritto nulla sul tema.
In conclusione penso che il dolore si combatte con il sostegno umano, la carità e i farmaci, non con l’eutanasia. E che sia verissimo quanto ha detto il filosofo e scrittore Paul Claudel agli universitari di Parigi: “Io sono un rudere d’uomo, non so parlare più, non ci vedo più, non ci sento più, non cammino più. Però, nonostante la paralisi, riesco ancora a fare una cosa che mi dà l’idea di essere uomo: riesco ancora a mettermi in ginocchio”.
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Intervista al professor Mario Palmaro
ROMA, giovedì, 28 settembre 2006 (ZENIT.org).
Ha destato molto scalpore la lettera aperta, inviata mercoledì 21 settembre al Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, in cui Piergiorgio Welby (malato di distrofia muscolare progressiva), Co-Presidente dell’Associazione Luca Concioni, chiede di porre fine alla sua vita con quello che ha definito un “diritto all’eutanasia”.
Nella risposta, il Presidente della Repubblica ha auspicato un dibattito parlamentare. La vicenda ha suscitato una infinità di reazioni ed un dibattito tra contrari e favorevoli all’eutanasia.
Per cercare di fare il punto sulle implicazioni morali e legislative della vicenda, ZENIT ha intervistato il professor Mario Palmaro, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università Europea di Roma e docente di Bioetica all’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorom”.
Il professor Mario Palmaro ha già trattato in maniera approfondita il tema, nel volume “Piccolo Manuale di Apologetica 2” – (Piemme 2006, pagg. 204, Euro 12,50).
La TV ha mostrato le immagini di un paziente in stato vegetativo persistente. Che senso ha vivere in quelle condizioni? Non è forse meglio morire che vivere così?
Palmaro: Queste parole dimostrano che il problema, nel dibattito sull’eutanasia, nasce da una domanda sbagliata. La questione non è: è meglio stare bene o stare male? essere sani o precipitare nel coma? Perché è ovvio che, messe le cose in questi termini, chiunque risponderà: molto meglio vivere nella pienezza delle proprie facoltà e funzioni. Ci mancherebbe. La vera domanda è un’altra: che cosa è lecito fare all’uomo di fronte a una malattia grave, a una menomazione, a un handicap, e a qualsiasi situazione di grave compromissione della salute? Si può uccidere per pietà? Questa è la domanda giusta.
D’accordo. Allora chiedo: perché non si dovrebbe sopprimere chi sta molto male, e magari desidera la morte?
Palmaro: Non si può uccidere mai una persona innocente, nemmeno se lei stessa lo desidera. Non c’è ragione al mondo che renda buona un’azione simile. Questo giudizio non dipende necessariamente da una concezione religiosa, ma è un elemento fondamentale della nostra civiltà giuridica. Gli esperti la chiamano “indisponibilità della vita”, e sta a indicare che non si può disporre a piacimento della vita dell’uomo. Non solo di quella altrui, ma perfino della propria.
E allora, come la mettiamo con il suicidio?
Palmaro: Il suicidio è un atto illecito, anche se l’ordinamento non lo punisce per ovvie ragioni. Togliersi la vita è un atto grave non solo sul piano morale, ma anche nella prospettiva giuridica. Infatti, la nostra vita è immersa in una rete di relazioni, e non possiamo dire che ucciderci è una faccenda che riguarda soltanto noi. Inoltre, togliersi la vita è un atto che comporta la negazione dell’essere. E’ l’affermazione che è meglio non vivere piuttosto che vivere. Imboccare questa strada significa contraddire un principio elementare dell’esistenza, secondo il quale tutto nell’uomo chiama alla vita, e normalmente si fa di tutto per salvare una vita, entro i limiti del lecito.
Del resto, mi chiedo: perché allora esiste nel codice penale di molti Stati il reato di “istigazione al suicidio”? Se il suicidio fosse un atto perfettamente lecito, consigliare qualcuno e perfino aiutarlo non sarebbe un male. Non esiste il reato di “istigazione all’elemosina”. Dunque, ammazzarsi non è una faccenda privata.
Ma, la libertà individuale dove va a finire con questo ragionamento?
Palmaro: Un uomo è in piedi sulla spallina di un ponte e sta per buttarsi giù. Intorno a lui poliziotti, infermieri, semplici cittadini tentano in tutti i modi di impedirglielo. E, se riescono, lo bloccano con la forza, contro la sua volontà. Perché lo fanno? Non dovrebbero rispettare la libera volontà di quell’uomo? Potrebbero per esempio verificare se ha dei buoni motivi per buttarsi giù. Potrebbero fargli firmare un modulo di consenso informato per “sgravarsi” da qualsiasi responsabilità. Perché non fanno nulla di tutto questo? E’ semplice: perché la vita è giuridicamente percepita come un valore intangibile, e la società tenta di impedire perfino il suicidio. Detto tutto questo, chiariamo un fatto: fra eutanasia e suicidio c’è una differenza molto importante, decisiva.
Qual è allora la differenza tra suicidio ed eutanasia?
Palmaro: Nel suicidio chi si uccide fa da sé. Dunque, non viene coinvolta una volontà terza. Invece, nell’atto eutanasico occorre necessariamente che una persona diversa dal sofferente – può trattarsi del medico, dell’infermiere, di un funzionario incaricato dallo Stato, di un parente, di un coniuge – compia uno o più atti idonei a provocare la morte di altro da sé. Sul piano giuridico c’è un salto di qualità drammatico, enorme: perché per legalizzare l’eutanasia, in qualsiasi forma, occorre autorizzare qualcuno a togliere la vita ad un altro uomo innocente, cioè che non sia in grado né voglia nuocere alla vita o all’incolumità di qualcuno.
Alcuni sostenitori estremi dell’eutanasia affermano che uccidere anche un innocente, può essere considerato un reato soltanto quando la vita di quell’innocente esprime una certa qualità…
Palmaro: Certo. E non si tratta di un’idea nuova. A Sparta si gettavano i bambini deformi dal Taigeto; nell’antica Roma dalla rupe Tarpea. In tempi molto più recenti, l’idea che l’uomo possa essere eliminato quando è anormale, ritenuto infelice, indegno di continuare a esistere, è stata riproposta con forza dal nazismo. Nel 1939 Adolf Hitler mise in piedi, con la collaborazione del suo medico personale, il dottor Karl Brand, una organizzazione che fosse in grado di eliminare in segreto una serie di tedeschi di pura razza ariana, con problemi. Qui dunque il razzismo non centra nulla. Il discrimine è “la qualità della vita”: un neonato con gravi deformità, un bambino con problemi di salute, un malato di mente, un mutilato reduce della prima guerra mondiale. Per tutti costoro Hitler e i medici di sua fiducia avevano preparato un piano, denominato “Operazione T4”, per ucciderli senza conseguenze giudiziarie.
Gli attuali sostenitori dell’eutanasia rifiutano il riferimento al piano di eutanasia nazista.
Palmaro: Si sbagliano. So perfettamente che oggi i fautori dell’eutanasia non sono dei nazisti, e che anzi sono spesso dei convinti antifascisti. Ma l’esperienza ci insegna che per avere idee naziste non è necessario essere dei nazisti. Nel 1935, dunque qualche anno prima dell’iniziativa sciagurata di Hitler, in Gran Bretagna viene fondata la British Euthanasia Society. La promuovono alcuni intellettuali come Gorge Bernard Shaw e Bertrand Russel. Anime liberali che però avevano un tragico punto in comune con la follia nazista: ergersi a padroni della vita, e a giudici della qualità di vita necessaria per continuare a vivere e a considerare degna una persona di essere tutelata e rispettata. La lettera [scritta da Hitler al suo medico personale Karl Brandt, con la quale lo incaricava di reclutare medici di provata fede nazista disposti a realizzare il “Piano T4”, ndr] con cui in Germania si dà avvio all’orribile mattanza, porta la data del 1° settembre 1939, ovvero l’inizio della Seconda Guerra Mondiale.
Resta però il fatto che nella Germania di Hitler la gente veniva uccisa senza il proprio consenso, o addirittura contro la volontà delle vittime.
Palmaro: E’ vero, nel “Piano T4” mancava il consenso degli interessati. Ma per quanto possa apparire inelegante, o politicamente scorretto, dobbiamo riconoscere che le ragioni di principio che muovevano Hitler e i suoi carnefici erano del tutto simili a quelle dei moderni fautori dell’eutanasia. Infatti, il percorso logico è il seguente: 1) ci sono persone che, secondo un nuovo criterio di vita umana, conducono un’esistenza priva di significato; 2) riteniamo che queste vite siano fonte di sofferenza per chi le conduce e per chi sta vicino a queste persone; 3) non abbiamo alcun sentimento di odio nei confronti di questi sofferenti, anzi li consideriamo meritevoli di stima e considerazione per quanto hanno finora fatto per la patria, o per la scienza, o per la democrazie; 4) non per odio ma per amore, per compassione vogliamo che queste persone siano finalmente liberate dal giogo di una vita biologica assurda; 5) per fare questo, lo Stato deve organizzarsi e garantire una via di uscita indolore. Fin qui, il punto di vista di Hitler, dei suoi giuristi, e dei medici che lo fiancheggiarono, e il punto di vista dei liberal radicali moderni non diverge affatto. Le due strade si separano quando alcuni nostri contemporanei – non tutti, per la verità – tirano in campo la questione del consenso, della richiesta del paziente.
La richiesta ed il consenso all’eutanasia, cambiano i termini della questione?
Palmaro: Innanzitutto, ci sono esempi recenti come il caso dell’Olanda, dove si è scoperto che ogni anno vengono “terminati” dei pazienti per i quali non vi è traccia del modulo di richiesta. E nessuno di loro, ovviamente, è tornato per lamentarsi del trattamento ricevuto. In secondo luogo, c’è il problema della definizione di questo consenso… scritto, orale, in preda al dolore, precedente, riferito da un parente. In terzo luogo, c’è il problema di tutti quei pazienti che non potranno più, o non potranno mai, a causa della loro patologia, esprimere una qualsiasi richiesta. Pensiamo a un handicappato grave fin dalla nascita; a un neonato; a un pazzo; a un comatoso che non abbia mai detto o scritto nulla sul tema.
In conclusione penso che il dolore si combatte con il sostegno umano, la carità e i farmaci, non con l’eutanasia. E che sia verissimo quanto ha detto il filosofo e scrittore Paul Claudel agli universitari di Parigi: “Io sono un rudere d’uomo, non so parlare più, non ci vedo più, non ci sento più, non cammino più. Però, nonostante la paralisi, riesco ancora a fare una cosa che mi dà l’idea di essere uomo: riesco ancora a mettermi in ginocchio”.
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