Antonio Socci
I comunisti e i cristiani negli anni.
Giuliano Ferrara ha scritto che lo stemma araldico di
Giorgio Napolitano dovrebbe essere un coniglio bianco in
campo bianco. Tale è stato il coraggio temerario che ha
mostrato, in mezzo secolo, da leader comunista che (dicono)
dentro di sé dissentiva dal comunismo. Ieri Ferrara, dopo
che il neopresidente ha firmato la grazia per Bompressi, si
è detto pentito di quel giudizio. Mi chiedo perché. Quella
firma sarebbe un atto di coraggio? Io penso che lo stemma
del presidente possa cambiare solo così: coniglio rosso, con
occhi rossi, in campo rosso.
E' tipico "coraggio" rosso anche quello che ha portato un
altro simbolo del popolo di Sinistra, il vignettista Vauro,
a uscire con un libro di pernacchie contro papa Wojtyla,
morto da un anno. Il dirigente comunista, oggi presidente
della Repubblica, e il vignettista più fanatico dei giornali
di Sinistra, sono accomunati da certa assenza di vergogna,
di stile e una vera mancanza di "pìetas", quel sentimento
universale che induce almeno al rispetto delle persone
morte, che hanno sofferto e che sono ancora piante da chi
era loro legato. Su tutto sembra prevalere invece l'appartenenza
tribale.
Il problema infatti non è la grazia in sé a Ovidio Bompressi
che i tribunali della Repubblica avevano condannato a 22
anni per il feroce assassinio del Commissario Luigi
Calabresi. Semmai è un problema che sia stato questo il
primo atto di Napolitano, firmato a velocità supersonica
("inusuale" rileva il Corriere della sera). Al di là del
merito (...) fare di questa firma il primo atto di una
presidenza significa voler trasformare tale gesto in un
pesante segnale simbolico e politico. Alla tribù e ai
"nemici". Significa dire: noi non ci siamo presi solo il
governo, ma ci siamo presi lo Stato. E ora tutti i cittadini
sono uguali, ma alcuni lo sono più degli altri.
Ma la cosa più grave è che la famiglia Calabresi non è
stata interpellata ed ha appreso tutto dalla Tv. Per la
smania di firmare quella turbo-grazia, Napolitano ha evitato
di fare perfino una semplice telefonata preventiva alle
vittime. Solo l'indomani - quando l'atto era già esecutivo -
ha alzato quel telefono dopo che perfino
prima pagina, rilevava l'incredibile mancanza di sensibilità
umana: "E' incomprensibile" scriveva ieri il giornale di
Ezio Mauro "che il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano non abbia avvertito l'urgenza di comunicare alla
famiglia di Luigi Calabresi, prima che alla stampa, la
concessione della clemenza a Ovidio Bompressi".
Quella di Napolitano è stata dunque una formalistica toppa
messa a una colossale gaffe.
Anche perché ben altro doveva fare.
Doveva quantomeno dire agli italiani (per esempio nel
messaggio per la festa della Repubblica, che invece ha
riempito di retorica e aria fritta) che è al Commissario
Calabresi che deve andare tutta la stima e la commozione,
non a Bompressi e compagni.
Napolitano, che oggi rappresenta lo Stato italiano, avrebbe
dovuto ricordare solennemente quell'uomo buono e coraggioso
che fu il Commissario Calabresi, che prima subì il
linciaggio morale delle Sinistre in tutte le piazze d'Italia,
e poi fu macellato come un cane su un marciapiede. E che
sacrificò la propria vita, sapendo di sacrificarla
(lasciando moglie e figli piccoli), per lo Stato italiano.
Perché il popolo italiano potesse vivere serenamente e non
essere più vittima quotidiana di uno scatenato squadrismo
rosso che impazzava in scuole, piazze, fabbriche,
università.
Un uomo grande che ha servito lo Stato fino a dare la vita.
Questo avrebbe dovuto dire Napolitano in televisione.
Ma Calabresi non apparteneva alla sua tribù.
Non era comunista.
Era cattolico.
Profondamente cattolico.
Proprio la sua fede cristiana ne aveva fatto un uomo così
straordinario, eroico, silenziosamente pronto a farsi
linciare e anche a morire.
I cristiani da decenni sono le vittime prescelte dei
comunisti. Dalla Russia a tutti i Paesi dell'est, dalla Cina
a Cuba, per decenni i regimi comunisti hanno macellato
milioni di cristiani inermi.
Li hanno torturati, hanno infierito su di loro, li hanno
derisi, spogliati di tutto, crocifissi, violentati in ogni
modo.
E continuano ancora a farlo.
In Italia è in nome della stessa ideologia che sul finire
della Seconda guerra e negli anni successivi sono stati
massacrati tanti preti e militanti cattolici, compresi
partigiani bianchi e sindacalisti cattolici (storie
bellissime e naturalmente "censurate" per 50 anni, finché
non le ha disseppellite Giampaolo Pansa). Il macello andò
avanti per alcuni anni, ma i comunisti non riuscirono, il 18
aprile del
non fece la fine dell'Albania, della Cecoslovacchia o della
Polonia. Non riuscirono a prendere il potere grazie alla
Chiesa di Pio XII e alla Dc di De Gasperi.
Venti anni dopo dal ventre del fanatismo comunista furono
partoriti tanti gruppuscoli estremisti, marxisti,
troztkisti, maoisti e il feroce partito comunista
combattente che lamentava la "resistenza tradita" (cioè il
fatto che non presero il potere nel 1948).
Così ricominciò la mattanza di cattolici.
Politici cattolici o uomini dello Stato come Calabresi che
della storia cristiana del Paese erano figli (o anche
coraggiosi laici, come Indro Montanelli: pochi).
La mia generazione è cresciuta negli anni in cui - nei
licei, nelle università e nelle fabbriche - dirsi cattolico
significava candidarsi a essere sprangato.
Ho visto decine di amici picchiati selvaggiamente, ho
personalmente subito minacce, aggressioni e insulti, ho
visto centinaia di sedi di Comunione e liberazione - per
esempio - devastate dalle molotov, da gruppi
extraparlamentari in cui militavano quelli che oggi fanno i
politici incravattati, i famosi giornalisti televisivi, i
pensosi intellettuali e perfino i manager.
Dal 1969 al
incomplete - vi furono 12.690 fra attentati ed altri episodi
di violenza politica (rossa e, per reazione, nera), che
provocarono 362 morti e 4.490 feriti.
Nessuna democrazia occidentale ha subito una guerra civile
paragonabile, in nessuna - com'è stato notato - l'assassinio
è diventato strumento di lotta politica.
In questo uragano di ideologia e violenza nel 1978 arrivò un
grande papa dall'est europeo, uno che aveva provato sulla
sua pelle la persecuzione, un figlio della Chiesa martire
del comunismo (e del nazismo).
Per i giornali italiani fu subito "reazionario,
oscurantista, anticomunista, integralista".
Così per anni.
Perché nelle redazioni dei giornali italiani dominavano i
soviet descritti da Michele Brambilla nell' "Eskimo in
redazione".
All'est fu subito una ventata di libertà, l'unica
rivoluzione pacifica, non violenta, liberale: quella fatta
dagli operai cattolici di Lech Walesa.
Perciò nel 1981, dalle segrete stanze del potere comunista
dell'est europeo, qualcuno, temendo il vento di Solidarnosc,
fece arrivare a Roma Ali Agca. E alla nefanda storia
criminale del comunismo si tentò di aggiungere l'ultimo
capolavoro: dopo aver macellato milioni di cristiani,
assassinare il Papa, il Vicario di Cristo in persona.
Sempre gli stessi carnefici e le stesse vittime.
Sappiamo com'è andata. E sappiamo poi che straordinario
pontificato sia stato quello di Giovanni Paolo II.
Sappiamo anche il calvario che negli ultimi anni di malattia
quest'uomo coraggioso ha vissuto.
Pensavamo che almeno dopo la sua morte, dopo tanta
sofferenza, il rispetto fosse dovuto.
Invece il più comiziante dei vignettisti della Sinistra
italiana, abituata a usare la satira come prosecuzione della
propaganda politica, ha pensato di dare alle stampe un
volumetto che raccoglie tutte le sue pesanti vignette contro
papa Wojtyla, venticinque anni di derisione.
Non spendo una parola su queste vignette ribollite, né sulla
noiosa prefazione di Dario Fo.
Voglio solo citare l'introduzione dello stesso Vauro che
scrive contro "questo papa che non esitò a sostenere
Marcinkus pur di dare una bella spallata al socialismo reale
dell'Est".
Ecco dunque il crimine che si imputa a Wojtyla il Grande.
Per aggiungere un po' di fango gratuito Vauro pretende di
dargli anche la responsabilità della guerra in Jugoslavia (o
buona parte di essa).
Così il libro non diventa forse propaganda politica? Lo
vorrei chiedere proprio a Vauro che, in un suo
articolo-autogol, deprecava appunto la satira asservita al
fanatismo politico: "L'Austriaco dipinto come laido e
viscido nelle imnmagini della propaganda italiana nella
guerra del 15-18, poi l'americano negroide e selvaggio in
quella tedesca della seconda guerra mondiale, sino all'ebreo
arcigno e dal naso adunco della iconografia nazista e
fascista. Dove c'è guerra c'è propaganda di guerra. Serve a
mobilitare una parte disumanizzando l'altra, a creare e far
accettare nel senso comune la terribile categoria del
'nemico' che è tale appunto perché disumano".
Vauro farebbe bene a rileggere questo suo articolo anche
perché è proprio lì che si scaglia contro i danesi rei di
aver fatto le famose vignette su Maometto e co.
Per lui quelle vignette sono solo "propaganda bellica",
ovviamente filo amerikana: "non c'entra niente con la
libertà di espressione, né tanto meno con la satira".
Vauro arriva a dire - a proposito delle violenze esplose nei
paesi islamici - che "non si può stupirsi e indignarsi se
messaggi violenti ottengono e provocano reazioni violente
nel 'nemico' ".
Insomma, satira sugli islamici no.
Sui cristiani, sul Papa, su Gesù Cristo invece Vauro si
scatena.
Sicuro che da loro "reazioni violente" non arriveranno.
Neanche per questo dileggio postumo che è un po' come andare
a urinare su una tomba.
Ad aumentare la tristezza c'è il fatto che sia stata
Piemme
pubblicare questa roba, peraltro
Mondadori, cosicché si scopre che Vauro pubblica,
indirettamente, presso l'odiato Berlusconi (naturalmente il
Cav non c'entra con queste scelte editoriali essendo lui
stesso dileggiato da Vauro).
Si ha la sensazione di vivere già in un "regimetto".
Senza "pìetas".
Arrogante e volgare.
Antonio Socci, 02.06.2006