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commento al cantico dell’Apocalisse (Capitolo 15, versicoli 3-4)

Pubblichiamo il commento al cantico dell’Apocalisse (Capitolo 15, versicoli 3-4)
esposto da don Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, durante la Veglia di Pentecoste di questo sabato in Piazza San Pietro.

* * *
«Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo». Con queste parole don Giussani terminò, otto anni fa, il suo intervento proprio qui, in Piazza San Pietro, inginocchiato davanti a Giovanni Paolo II. Noi oggi ritorniamo come mendicanti, ancora più desiderosi di Cristo, stupiti di come Cristo ha continuato a mendicare il nostro cuore. 1. «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti!» (Ap 15,3) Anche noi possiamo dire, come i martiri dell’Apocalisse dopo aver visto la Sua vittoria: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente». Quali sono le opere che ci fanno cantare? La risurrezione di Cristo che, per opera dello Spirito Santo, ci ha afferrato nel battesimo, facendoci diventare “suoi”. La vittoria di Cristo ci fa esultare di gioia e di gratitudine nel vedere come Lui, prendendo tutta quanta la nostra umanità, la porta a una pienezza senza paragone, spingendoci a non vivere più per noi stessi, ma per colui che è morto e risorto per noi (cfr 2Cor 5,14-15). È nella carne, in mezzo alle vicende della vita, che a noi viene data la grazia di vivere questa novità: «Pur vivendo nella carne, io vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Lo stupore dell’amore di Cristo per ognuno di noi domina la nostra vita, perchè «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). È così che abbiamo sperimentato «la potenza della sua risurrezione» (Fil 3,10). Questa è la sconfitta del nulla che sempre incombe su ogni uomo, e che tante volte gli fa dubitare ci sia una risposta che corrisponda alle esigenze di verità, di bellezza, di giustizia, di felicità del suo cuore, perché niente è in grado di affascinarlo totalmente per molto tempo. Infatti, «senza la resurrezione di Cristo c’è solo un’alternativa: il niente». In Cristo risorto, invece, vediamo la vittoria dell’Essere sul nulla, e perciò il ridestarsi in noi dell’unica speranza che non delude (Rm 5,5). L’incontro con il carisma di don Giussani, nel grande alveo della Chiesa, ci ha fatto diventare Cristo sempre più familiare, più che nostro padre e nostra madre, fino a far sorgere in noi la domanda: «Chi sei Tu, Cristo?», secondo lo stesso metodo che ha condotto i discepoli dall’esperienza dell’incontro con l’umanità di Cristo alla grande domanda circa la sua divinità. In questo modo noi, battezzati, ci siamo immedesimati con Cristo (cfr Gal 3,27). Questo è il fascino inattaccabile del cristianesimo: esso ci fa partecipare a un avvenimento che prende tutto il nostro io e ci riprende ogni volta che veniamo meno, come è accaduto ai discepoli di Emmaus, che dicevano commossi: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?» (Lc 24,32). Così, alla luce dei doni dello Spirito, la realtà intera e tutta la vita testimoniano la ragionevolezza della fede in Cristo, destino e salvezza del mondo. 2. «Chi non temerà il tuo nome, chi non ti glorificherà, o Signore? Tu solo sei santo! » (Ap 15,4) È l’imponenza del Suo amore che risplende nelle Sue opere a rendere facile il riconoscimento del Signore. Come fu per il popolo d’Israele, che davanti alla mano potente di Dio, «temette il Signore e credette in lui» (Es 14,31). Basta che la nostra libertà ceda e, come Sua Santità ci ha mirabilmente ricordato nella Sua enciclica, si lasci coinvolgere da Cristo nella «dinamica della sua donazione» a noi (Deus caritas est, n.13). Questa donazione arriva nella persona di Gesù Cristo a un «realismo inaudito» (n.12): il Dio incarnato diventa un’attrattiva così vincente che «ci attrae tutti a sé» (n.14). L’uomo che lo incontra lo trova talmente corrispondente all’attesa del cuore, che non esita a esclamare davanti al manifestarsi della bellezza della sua santità: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Ma, come lo stesso Pietro, tante volte noi avvertiamo anche tutto il dramma della umana libertà che, invece di aprirsi fiduciosa nel riconoscimento stupito e grato del Signore presente, può chiudersi nella pretesa orgogliosa di autonomia o nello scetticismo, fino alla disperazione, di fronte alla propria impotenza e all’imponenza del male. Ma come Sua Santità ci ha ancora richiamato nell’enciclica, la santità di Dio si mostra come amore appassionato per il suo popolo, per ogni uomo, amore che nello stesso tempo perdona (cfr Deus caritas est, n.10). Tutta la fragilità dell’uomo, il suo tradimento, tutte le brutte possibilità della storia sono attraversate da quella domanda posta a Pietro in quell’alba sul lago: «Mi ami tu?» (Gv 21,17). Attraverso questa domanda, semplice e definitiva, la santità unica di Dio rivela nell’umanità di Cristo la sua inconcepibile e misteriosa profondità: Dio è misericordia. In essa l’uomo, ciascuno di noi, è ricreato nella verità della sua dipendenza originale, e la libertà rifiorisce come adesione umile e lieta, piena di domanda: «Sì, Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo» (Gv 21,17). In questo “sì” libero della creatura, dentro a ogni circostanza della vita, si riverbera e opera la gloria di Dio: «Gloria Dei vivens homo» (Sant’Ireneo, Adversus Haereses, IV,20,7)). La gloria di Dio è l’uomo che vive. 3. «Tutte le genti verranno, Signore, davanti a te si prostreranno, perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati» (Ap 15,4) Il giudizio dell’Apocalisse ci svela la verità dell’ultimo giorno, quando tutti verranno e si prostreranno nel riconoscimento che Gesù è il Signore, e Cristo sarà definitivamente «tutto in tutti» (Col 3,11). Questo giudizio luminoso non è contraddetto da un mondo che sembra allontanarsi da Dio. Ma la drammatica situazione in cui viviamo rende più bruciante la struggente domanda di Cristo: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Rispondere a questa domanda ci fa diventare più consapevoli della portata di questo incontro. Il nostro radunarci oggi intorno a Pietro ci rende certi che quel compimento finale vive nell’appartenenza alla Chiesa, al «piccolo gregge», anticipo e caparra della manifestazione finale. Ma, allo stesso tempo, ci strugge l’urgenza del compito a cui siamo chiamati. Come nella prima Pentecoste, anche noi siamo stati scelti, chiamati per diventare testimoni della bellezza di Cristo davanti a tutte le genti. Che semplicità di cuore ci vuole per lasciarci plasmare da Cristo così da far splendere di novità tutta quanta la nostra vita quotidiana, dal lavoro alla famiglia, dai rapporti alle iniziative! Soltanto una cosa potrà destare in coloro che incontreremo il desiderio di venire con noi a prostrarsi davanti al Signore: il vedere realizzarsi in noi la promessa di Cristo che chi lo segue avrà il centuplo quaggiù (Mc 10,29-30).

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