PATOLOGIA DELLA LIBERTA'
di Marcel de Corte
Il rapporto fra uomo e mondo è il tema fondamentale del pensiero filosofico moderno. Filosofi e uomini della strada, tutti si preoccupano sempre di più della loro situazione precaria in seno ad un mondo che si disgrega.
È un fenomeno inevitabile, perfino banale: l'uomo si pone interrogativi su se' stesso e sul mondo, nella misura in cui non è più sicuro ne' dell'uno ne' dell'altro. Anche della salute, ci preoccupiamo solo nel momento in cui è compromessa. Così, la maggior parte dei problemi filosofici si pongono distintamente all'intelligenza soltanto quando la vita non è riuscita a risolverli. Lo dice bene una simbolica quartina di Valéry:
Autunno, o trasparenza; o solitudine accresciuta
di tristezza e di libertà,
Ogni cosa mi è chiara appena scomparsa,
ciò che non è più si fa luce.
Il problema dei rapporti fra l'uomo e il mondo, fra la libertà e la natura, è legato alla sensazione d'un certo malessere, al sentimento della disorganizzazione, alla coscienza che le cose non vanno più per il verso giusto. Non si spiegano altrimenti il successo dell'esistenzialismo e la voga del marxismo.
I nostri padri non provavano affatto l'ansia di cercare quale fosse il loro posto nel mondo: lo occupavano, e basta. Vivevano la loro relazione con l'universo. Come alberi vigorosi, affondavano le loro radici nella terra feconda del reale, e ne traevano alimento. La loro intatta potenza di assimilazione non s'interrogava sulla sua forma, o sulla sua capacità: si esercitava semplicemente in una specie di circuito vitale dall'uomo all'essere e dall'essere all'uomo. Le loro radici mangiavano il succo della terra, la clorofilla dell'albero umano beveva la luce del cielo: tra l'uomo e l'universo, era stabilito un tacito patto nuziale. Arrivavano tempeste e cataclismi, e gli uomini resistevano: riserve di un mondo inferiore e di un mondo superiore erano accumulate nella loro linfa.
L'uomo d'oggi ha rotto questo patto. Hegel è stato il primo filosofo ad aver tentato di orchestrare questa dissonanza, la cui eco si ripercuote ora in tutti i cuori, con la celebre teoria della "coscienza infelice", angosciata dal suo collocarsi in un mondo estraneo alla sua libera natura, che corre da un capo all'altro dei suoi scritti. Certo, Hegel ha avuto il merito incontestabile di sottolineare il turbamento di cui soffre l'uomo moderno, ed è questo che spiega il suo prestigio. Senza averlo letto, siamo tutti impregnati del suo pensiero, perché siamo saturi della sua esperienza. Non c'è bisogno di sentire il sinistro rintocco della venticinquesima ora, per capire che siamo esiliati in un mondo che ci divora con la sua terribile estraneità.
Hegel e i suoi successori vanno però completamente fuori strada, quando passano alla diagnosi della malattia che mina la relazione fra l'uomo e il mondo. Secondo loro, la natura della malattia è semplice: la coscienza è infelice nel mondo, perché essa è per natura libera, mentre il mondo non lo è. Basterà quindi mutare il mondo secondo gli imperativi della sua stessa coscienza, perché essa ne sia beata e felice. Il che significa in altre parole che essi constatano una frattura fra l'uomo e il mondo, e propongono come rimedio l'aggravamento della frattura stessa, l'amputazione della parte separata e la sua sostituzione con un apparecchio di protesi. Il male, spinto al massimo grado, scaccia il male. Mai essi si pongono la domanda se per caso lo smarrimento dell'uomo nel mondo non sia dovuto all'uomo stesso, al suo rifiuto di assumere, di fronte al mondo, un atteggiamento umano, ad una scissione del rapporto reciproco, da lui stesso provocata. E lo prova l'esame delle loro filosofie: che si tratti di Hegel, di Marx o di Sartre, si vede immediatamente che la loro concezione dell'uomo è quella d'un essere mutilato, privo di quella capacità d'adattamento al mondo che si chiama vita, ridotto allo spirito, al pensiero tecnico, al "per sé". L'uomo non è mai, in questi filosofi, un essere organico le cui facoltà di conoscere, di sperimentare, di amare, di pensare e di agire funzionano articolate le une alle altre, le une delle altre partecipi, come gli organi di un corpo nel pieno vigore; ma è invece un essere disincarnato, ridotto al pensiero, puro spirito, intelligenza confusa con le viscere, coscienza di sé, incapace di mantenere la vivente comunione degli elementi che lo compongono. Filosofie da eunuchi, con tutte le compensazioni dialettiche ed immaginarie che questo stato richiede.
Come stupirsi allora che l'uomo sia separato dal mondo, dal momento che è separato da se stesso, e ridotto ad essere soltanto questo, o quello? Uomo e mondo sono separati perché l'uomo è egli stesso separato, "out of joints". Il divorzio fra l'uomo e la realtà è preceduto da una scissione nell'unità dell'uomo stesso. E dalla ferita di questa scissione, sfugge a goccia a goccia l'anima, principio di vita, potere di relazione, facoltà di comunione fra le componenti dell'essere umano, e fra questo e il mondo. Per questo la maggior parte degli uomini muore prima di aver vissuto, e la terra è popolata di spettri più che di viventi. Il bando in cui la filosofia moderna ha gettato il concetto di anima, riservato ormai ai predicatori, si spiega con un oscuro risentimento contro l'impotenza a vivere, compensata dai meccanismi dell'intelligenza che girano a vuoto, e dalla frenesia dell'azione. L'uomo moderno si sente in un mondo senz'anima, perché egli stesso è senz'anima, e ricerca morbosamente il suo posto in un mondo diventato tenebroso e ostile perché possiede soltanto un'anima cachettica e prigioniera, incapace di unificare il suo essere e di accordare pensiero e condotta all'universo.
Sarebbe falso d'altronde credere che quest'atteggiamento sia caratteristico dei filosofi soltanto. L'esistenza quotidiana ce ne offre esempi quanto mai precisi.
Il funzionario, la cui intelligenza, convertita in regolamenti giuridici, si dispiega soltanto più all'interno di un soffocante formalismo: più nessuna relazione fra il suo essere asfissiato dalle scartoffie e la presenza degli altri esseri.
L'artista, cerebralizzato fino alle midolla, che opera solo in base ad un sistema precostituito: che cosa potrà ancora cogliere dei segreti del volto umano o della natura?
Gli uomini cosiddetti di mondo, il cui pensiero si è adattato a non essere altro che un insieme di ricette più o meno brillanti; le loro relazioni, null'altro che una radicale assenza di relazioni effettive.
L'uomo della strada, con la testa piena d'opinioni prefabbricate, di utopie masticate e rimasticate, stipata di concezioni politiche e sociali di cui ordina a parole la fumosa architettura. L'"altro" in carne ed ossa, è fuori del campo delle sue percezioni.
L'amante, in preda all'idea fissa del sesso, il professore ebbro di teorie, il finanziere prigioniero delle sue cifre, il fazioso, il dottrinario. Ecco la legione dei nostri contemporanei, la cui mente, vasta o mediocre che sia, non ha più nulla di comune con l'anima e ricerca disperatamente, con fanatismo, un punto nel quale inserirsi nella realtà. I loro pensieri e i loro atti sono liberi, ma la loro mente volteggia da un oggetto all'altro, senz'alcun appiglio o relazioni, se non con se' stessa. Sono liberi, sì, ma qui, nel cerchio delle regole, dei sistemi, delle convenzioni, delle idee e delle ideologie concepite dalla loro mente. Al di là di questo limite, al di là della coscienza o dello spirito che ha liberamente aderito a se' stesso e solo a se' stesso, incomincia il regno della costrizione e della necessità, s'innalza l'avversario che bisogna piegare, il nemico della libertà.
Il conflitto esplode innanzi tutto nel profondo del loro stesso essere. Il funzionario che elabora liberamente le sue regole astratte, l'artista legato alle sue creazioni sistematiche, l'uomo della strada imprigionato nelle sue nuvolaglie, devono innanzi tutto lottare contro l'uomo che essi sono, convenire cioè tutta la loro sostanza umana in spirito di funzionario, di logico, di riformatore, ecc... Per godere di una libertà sessuale senza impacci, bisognerà che l'uomo diventi sesso fin nelle unghie.
Per accedere alla libertà delle teorie, bisognerà che si trasformi in teoria. Per entrare nella libertà del "mondo", bisognerà che si trasformi in un essere convenzionale. Per ottenere la libertà politica, sociale, economica, dei suoi sogni, bisognerà che si politicizzi, si socializzi, si trasformi in produttore, e così di seguito. Tutti i giorni ci vediamo intorno persone che hanno ottenuto sulla loro qualità di uomini completi la costosa vittoria di essere soltanto più questo o quello, e che, ostentando i loro monconi, si credono esseri umani perfetti. La nostra epoca si è specializzata nella diffusione di queste tecniche di taglio, castrazione, dissezione e mozzatura. Non passa attimo senza che stampa, radio, cinema, o l'ambiente soffocante della collettività, non ci persuadano a stenderci sul letto di Procuste, per una liberazione che mutila, e queste pratiche di vivisezione umana sono così diffuse che non suscitano più nessuna reazione. Ci offriamo sorridenti al bisturi incantatore, per essere padroni e liberi nella stretta sezione del nostro essere che abbiamo scelto, o abbiamo accettato dietro persuasione.
Ma la nostra disfatta non pone termine al conflitto.
Sradicata dal nostro essere, la nostra nuova condizione è sradicata dall’essere: di fronte a noi c'è ora un mondo tetro, incomprensibile, nemico, che ci pone di fronte ostacoli che dobbiamo piegare. In realtà, noi rimaniamo senza un vero mondo intorno a noi: priva d'ogni rapporto con l'uomo reale solidale con il mondo reale, la nostra libertà è inesorabilmente condannata a costruire un mondo nuovo che le sia conforme, e che si sostituisca al mondo umano, progressivamente annientato. Ecco come nascono, sotto i nostri occhi, i mondi artificiali: quello del funzionario, quello dell'intellettuale, quello del politico, dell'uomo "di mondo", dello scienziato, e così via, nei quali invano cerchiamo il mondo dell'uomo. Questi mondi che ci lasciano continuamente con la nostra fame e la nostra sete - se abbiamo conservato in noi qualche scintilla d'anima - sono le pelli gonfiate dallo spirito umano disincarnato, che ha optato segretamente per se stesso, ad esclusione di tutto il resto.
Ne segue fatalmente una duplice conseguenza. Quanto più questi mondi artificiali generati dalla mente si realizzeranno nell'esistenza e passeranno nei fatti, tanto più la libertà che li pervade all'origine sarà respinta all'interno del pensiero, e abbandonerà l'uomo in carne ed ossa ai peggiori automatismi. Quanto più la libertà si rifugia in seno al settore che si è scelto, per essere soltanto più questo o quello, tanto più si carica di determinazioni che l'aboliscono. Ne fa testimonianza l'esempio della libertà sessuale: il libertino è non solo prigioniero del mondo della sessualità che egli si è costruito, ma la sua libertà si trasforma sempre più in un tropismo sessuale: al limite, non è più che una parola che nasconde il suo contrario. Non è poi del tutto paradossale affermare che fra la coscienza del libertino, assillata dal sesso, e la coscienza hegeliana, non esiste la minima differenza. Sono due coscienze avulse dall'uomo reale e dal mondo reale. La prima diventa un meccanismo dialettico, l'altra una macchina per fare l'amore, ed entrambe sono condannate a trasformare il mondo al loro livello, per essere inseparabilmente libere e schiave dei loro ingranaggi. Il paragone potrebbe andare oltre: fra la dialettica hegeliana e quella dongiovannesca, sono assai più considerevoli le rassomiglianze concrete che le differenze.
Schema ancora approssimativo, questo, che tuttavia può orientare il diagnostico verso una certezza: si tratti del filosofo o d'uno qualunque di noi, l'evoluzione patologica della libertà umana si rivela strettamente dipendente da una intima frattura che la mente ha prodotto fra se' stessa e l'uomo concreto. Questa prima crepa ne determina un'altra fra l'uomo e il mondo. Gli uomini d'oggi sono affannati dall'essere se stessi e dal collocarsi nel reale, vogliono essere uomini nuovi in un mondo nuovo, perché si sono slegati da quella duplice relazione (da sé a sé, e da sé al mondo) che costituisce la struttura e il mistero essenziale dell'uomo; perché sono liberi in senso morboso, come sangue senza arterie, come linfa senza canali.
Ma perché la libertà si mette su questa strada che finisce per tradirla, mentre spera di trovarvi il suo compimento? Circostanze, pressione sociale, stimoli patologici esterni, fattori ereditari, educazione, pur esercitando una notevole influenza, sono soltanto cause superficiali. Vale sempre il vecchio adagio scolastico: quid-quid recipitur ad modum recipientis recipitur. È tutta questione di terreno, ed il terreno è l'uomo. Non si comprenderà nulla dell'enigma della libertà finché non si sarà compreso che l'essenza dell'uomo sta nell'essere uno o molti, e che lo spirito possiede il terribile potere di incarnarsi nella concreta totalità dell'uomo per illuminarla della sua fiamma, oppure di disincarnarsi per raccogliersi in se' stesso, in un tutto autonomo. L'uomo è sempre suscettibile di essere se' stesso o di non esserlo, in funzione della sua libertà. È alla frontiera dell'essere o del nulla, gode del sovrano privilegio di essere uomo o di non esserlo, di essere fedele a se' stesso o spergiuro nei suoi stessi confronti. Essere votato alla salvezza o alla perdizione, costituisce un carattere intrinseco e metafisico della sua natura. In ogni istante della vita, ci è dato di rompere o mantenere la relazione del nostro spirito col nostro essere totale; in ogni istante, possiamo essere soltanto questo o quello, oppure quello che siamo veramente. In altre parole, la libertà dell'uomo è sempre alternativa e ambivalenza; s'afferma o si nega da sola, con una specie di allentamento o di ripresa di sé.
Il suo destino è quello di affermare la relazione dello spirito all'essere nel quale si incarna, e al mondo nel quale siamo, oppure di spezzare questo rapporto e di disorganizzare l'uomo e il mondo, liberando lo spirito da ogni legame vivente. Come la lingua di Esopo, la libertà umana è la migliore o la peggiore delle cose: è la salute che fiorisce o la malattia che dissecca, lo sviluppo o la contrazione, la fecondità o la sterilità, la promessa o la minaccia, la pace o la guerra: un Giano bifronte.
Indubitabile dunque che la libertà inizi il suo ciclo d'evoluzione patologica quando lo spirito si astrae dal campo delle relazioni, dalla rete di arterie e di vene, di radici e di canali che ci lega a noi stessi e al mondo. Se esaminiamo il singolare rapporto che ci lega a noi stessi, e del quale la maggior parte degli uomini sembra aver perduto il senso, vediamo subito che è inutile volerselo rappresentare prima di viverlo. Logicamente anteriore alla sua rappresentazione intellettuale, ne è la presenza: la realtà di un essere viene prima della sua immagine riprodotta da uno specchio: la presenza del nostro essere a noi stessi è condizione preliminare di tutto ciò che possiamo pensarne. Assurdo dunque pretendere di pensarsi, prima di essere: in questo senso, il "cogito" cartesiano, se vuol essere qualcosa di più di una enunciazione teorica, risulta un sintomo di sviamento, di nevrosi, di schizofrenia, almeno embrionale. Un tentativo del genere implica già il processo di disincarnazione, con il quale l'uomo esce liberamente da se' stesso per sdoppiarsi. Bisogna pur dire, a rischio di passar per bestie agli occhi dei filosofi ingenui, che psicopatia e filosofia sono spesso sinonimi.
Che cosa significa allora essere se stessi, presenti a se stessi? Impossibile dirlo, impossibile illuminare questa situazione fondamentale, collocandosene al di fuori. Occorre innanzi tutto viverla. Allora, e soltanto allora, il suo mistero sparisce, ed essa diventa fonte di luce, simile ad un faro che ci acceca se lo guardiamo di fronte, rimanendone al di fuori, mentre rende visibile ogni cosa se ci mettiamo nel suo centro luminoso, e nell'asse del suo irraggiamento. Essere presenti a sé non è null'altro che volgere senza debolezze la propria attenzione dal di dentro al di fuori, raccogliersi su di sé come l'animale alla posta e, come questo, fissare lo sguardo sulla preda, non per divorarla ma per accoglierla; essere luce per contemplare la luce che rischiara il mondo. La presenza di sé a sé stesso, e la presenza al mondo, sono assolutamente correlative. L'uomo senza crepe, tutto d'un pezzo, senza duplicità, è colui che intesse con il reale i più numerosi e più vivi rapporti: i santi, i geni, gli eroi, massime incarnazioni di uomo, aperti indefinitamente agli altri e al mondo. L'unità del loro essere è inseparabile dalla loro relazione con l'universo.
E dov'è in tutto questo la libertà? Ebbene, essa è proprio qui, sotto i nostri occhi. Quanto più l'uomo è presente a sé, e rifiuta la scissione interiore, tanto più scopre il suo accordo con il mondo, e tanto più lo considera come un fratello e un punto d'appoggio, anziché un nemico o un ostacolo. Nulla gli pesa nell'universo: il mondo gli corrisponde nella sua totalità. Obbedienza all'essere e libertà sono proprio la stessa cosa. Obbedire ed essere liberi diventano sinonimi, dal momento che io accetto di essere uomo. Nello stesso modo, ogni organo del corpo funziona liberamente, senza pena, senza fatica e senza schiavitù, quando obbedisce alla sua legge e, obbedendo alla sua legge, s'accorda con l'insieme del corpo. La salute organica è proprio l'immagine più adeguata della libertà.
Ne viene un paradosso inaudito, inconcepibile, salvo che alla parte più fine e segreta dell'anima: la libertà non diventa assoluta se non nella misura in cui consente ad essere relativa e ad inserirsi nel tessuto vivo di relazioni concrete che costituiscono l'uomo e il mondo. La libertà è una rinuncia totale all’autonomia, al potere che io ho di darmi una mia propria legge, al potere che ho di dire io. L'uomo diventa se' stesso solo quando cessa di dire io.
Questa breve analisi mostra come la vera libertà si collochi al di là delle nostre possibilità. Quello che importa, è di tener presente tutto ciò e di avvicinarsi alla libertà il più possibile, attraverso un'amorosa attenzione al reale.
"Solidarietà con l'essere" non significa affatto abbandono passivo: è invece un atto di virilità, dì forza e d'amore, che supera la dispersione interiore a favore della quale l'io instaura il suo dominio. Eppure nulla ci è più difficile dello sforzo che, se arrivasse in porto, apporterebbe una gioia purissima. Preferiamo invece interporre il nostro io fra noi stessi e le cose, per avere l'illusione di governarle e di muoverci in piena libertà d'indipendenza. Preferiamo rinunciare al semplice e duro lavorio d'incarnazione dello spirito nella vita. Nella nostra ansia di realizzare una libertà che ci figuriamo perfetta, abbandoniamo una conquista vera per un'ombra. Siamo sì ancora e sempre liberi, ma in un altro modo: il diaframma dell'io interrompe il nostro rapporto con la realtà, la nostra libertà si riduce ad una fuga nell'immaginario. Si scatena in noi, secondo la bella definizione di Joubert, una "voracità senza preda".
Possiamo a questo punto fare una diagnosi più precisa della libertà patologica. La nostra libertà s'infetta, quando si concentra nel nostro caratteristico potere di dire io, e diventa perciò immaginaria. Queste due condizioni sono poi la stessa cosa. Io è soltanto un pronome, messo al posto del nome vero, sostituito al mio essere, che si trova per sua natura in relazione con la totalità dell'essere, e con il suo Principio. Io è una entità grammaticale, la cui essenza sta nel rinviare ad una realtà diversa da sé e, dal momento che cessa questo rinvio, diventa immaginaria. L'io puro e semplice esiste solo nell'immaginazione, ma, in questo suo rifugio, esiste e regna sovrano. Rifluiscono a lui la linfa ed il sangue di tutte le relazioni interrotte: da surrogato di quell'essere di relazione che è l'uomo, l’io diventa il centro verso cui convergono tutti gli aspetti dell'universo. Tutta la nostra potenza d'amare si volge verso di lui, l'io diventa un idolo, perché non c'è mai altro idolo che l'io. E come l'immaginazione, l'idolo dell'ho è vuoto: non ha dentro di sé che il nulla.
Ora, qualunque cosa faccia, l'uomo è incapace d'essere realmente egoista. L'egoismo umano è una leggenda assurda. Noi amiamo noi stessi, in quanto collegati alla creazione ed al Creatore, oppure l’immagine di noi stessi, che si sovrappone al nostro essere mutilato dalla volontaria rottura dei nostri legami, e che ci risucchia.
Nel suo bel romanzo, Meredith ci presenta il suo eroe che innalza un altare permanente al fantasma del suo essere. L'avaro e il sensuale fanno la stessa cosa: non venerano se' stessi, ma la loro immagine nell'oro e nella donna che posseggono. Ciò che chiamiamo egoismo non ci sembrerebbe così riprovevole, se contenesse una realtà; invece, la rivolta che suscita in noi è dovuta alla paura del nulla che esso nasconde. Noi sentiamo il vuoto che si cela nell'egoismo, e ne proviamo una vertigine, come sull'orlo d'un abisso. L'egoista invece non vede questo nulla: non ha possibilità di ritorno rispetto al non essere, perché è proprio il non essere. Gli innumerevoli sacrifici dell'egoista sono fatti a priori: come il santo e l'eroe, l'egoista s'è spogliato di tutto: una sola cosa non ha dimenticato: la sua immagine. La sua libertà malata ha sbagliato Dio. Il mondo d'oggi è pieno di queste consacrazioni a rovescio, e camuffate.
Camuffate, diciamo: non solo perché è molto raro vedere il soggettivismo della libertà mostrarsi nella sua pienezza, ma soprattutto perché gli è essenziale tradursi in termini generali che s'adattino ad una quantità d'individui, se non all'intera umanità. Sul piano del reale, non c'è cosa che possa sostituirne un'altra: ogni essere recita la sua parte, e nessuno può sostituirglisi. Il contrario accade nel campo dell'immagine in cui si ritira l'uomo che si sdoppia, È caratteristica dell'immagine quella di potersi moltiplicare, e di adattarsi al maggior numero possibile di uomini. Se immagino di essere libero spezzando le catene che mi uniscono al mondo, la mia immaginaria idea della libertà sarà tanto più universale, quanto più è nulla: essendo nulla, s'adatta a tutto e a tutti. L'egoista crede tutti gli uomini egoisti; l'uomo falsamente libero presume che tutti gli altri siano come lui. Se non lo sono, significa che sono schiavi, e che bisogna liberarli dalla loro schiavitù. La mia libertà immaginaria non è mai esclusivamente mia. Librandosi al di sopra del mondo degli uomini, ove ciascuno è unico ed insostituibile, diventa di colpo quella di tutti gli altri. Michelet ha ingenuamente espresso questo concetto, quando ha scritto che la libertà che chiama rivoluzionaria è un dono che egli fa, attraverso la Francia, al genere umano. Bisogna dire che ha oggi molti emuli di livello inferiore.
Soggettivismo e universalismo della libertà sono due facce dello stesso atteggiamento spirituale. Io non posso essere io se tutti gli uomini non sono degli io dello stesso genere. Tanto più avverto questa vocazione all'universale, quanto più respingo nel subcosciente, sotto il fluire di similitudini che mi confortano, l'oscura e lancinante intuizione del nulla che mi abita: una malattia che si estende a tutti non ha molta probabilità di essere sconfitta, e si può perfino pensare che sia scambiata per la salute. Basta ricondurre tutte le libertà sradicate al caso evidente e significativo della libertà sessuale, per constatare come queste non ne siano che la ripetizione: chi sogna la libertà sessuale, è costretto a diventarne l'apostolo ed a diffondere la buona novella dell'emancipazione, sotto il pretesto d'un progresso dell'uomo e della donna.
L'effetto più terribile della libertà non collegata alla realtà è così la contagiosità: essa trasferisce il pensiero in un mondo plastico, malleabile, indefinito, senza limiti né frontiere; lo rende incapace di stare in contatto con il concreto, con la realtà presente, e lo colloca in piena astrazione universale. Ma, dato che siamo fatti, perfino nelle nostre illusioni, per la realtà, abbiamo bisogno che l'astrazione diventi carne. L'essere dal quale siamo separati ci chiama, la sua voce ci invita a trasferire l'illusione nell'esistenza, perché non rimanga una illusione.
Un tentativo del genere è sempre possibile: con un po' di fantasia, possiamo sempre introdurre l'immaginario nel reale. La tecnica ci offre quotidianamente degli esempi: il progetto d'un ponte può trasformarsi in un ponte reale. Basta osservare come lo sviluppo delle tecniche sia perfettamente parallelo all'epidemia della libertà.
Quante volte del resto la tecnica della conversazione con sé stessi o con altri inserisce a forza nella realtà le nostre illusioni, le nostre menzogne, le maldicenze, le calunnie!
La contagiosità ha anche un altro aspetto: tutte le volte che soffriamo d'un male, siamo disposti a diffonderlo. L'orrore istintivo che abbiamo del male ci porta a diminuirlo trasmettendolo ad altri: è un istinto che difficilmente si può soffocare.
Il proselitismo della libertà è una liberazione personale che si sfoga nel linguaggio, come il dolore nel grido che scuote i nostri simili ed allevia i nostri tormenti con la compassione che suscita. Proclamiamo la nostra libertà, perché ciascuno prenda parte al suo vuoto, e lo riempia con la sua presenza. La nostra nuova libertà ci angoscia e, come un uomo che cammina da solo nella notte parla ad alta voce per rassicurarsi, noi gettiamo fra noi e gli altri la barcollante passerella del linguaggio, che fa da veicolo al nostro male.
Questi fragili legami imitano le relazioni che ci mancano. Uno dei sintomi più precisi di una libertà malata è il discorso che la riveste: una libertà che parla di sé stessa è quasi sempre una falsa libertà, perché le vere libertà sono pudiche e silenziose come la vita.
Il contagio della libertà non è soltanto inconscio e spontaneo: è anche volontario e aggressivo. Astratta com'è, il concreto le ripugna: immaginaria, il reale la tormenta; collocata interamente nell'io, essa scatena una lotta mortale contro chiunque le resista e non le sia identico. C'è tutta una serie di caratteristiche fondamentali della struttura della libertà patologica: innanzi tutto, la volontà di distruggere; essa annienta le libertà, come testimonia l'esperienza storica. Dove regna la libertà astratta, spariscono le libertà familiari, comunali, regionali. I privilegi, fiore delle relazioni sociali intensamente vissute, e in un certo modo frutto, carico di effettive libertà, della loro linfa, sono radicalmente eliminati. La libertà sradicata s'affanna a strappare le ultime radici delle altre. In secondo luogo, lo spirito di crociata, di critica distruttiva e di propaganda al tempo stesso. Inutile insistere su questo punto. Infine, l'egualitarismo, l'odio per le gerarchie, il livellamento in basso, risultato dell'alleanza fra l'astrazione immaginaria, nemica d'ogni differenza, e l'io che costituisce la parte più meschina dell'anima umana. I tre caratteri si trovano tali e quali nelle malattie infettive che colpiscono il corpo, provocano la febbre, e riducono la diversità dell'organico alla polverosa omogeneità del cadavere.
Quest'ultimo punto è d'importanza capitale. C'è un disgregamento sociale simile a quello che Augusto Lumière attribuisce alle cellule di un organismo morto.
Sotto la pressione della libertà malata, gli elementi del corpo sociale uniti in rapporti organici perdono la loro capacità di scambi reciproci, si giustappongono, si raggrumano, formano dei mucchi, e costituiscono quello che si chiama oggi "l'avvento delle masse". Lo ha descritto "ante litteram" Fiatone nel mito del "grosso animale".
La massa è soltanto il prodotto della disgregazione dei rapporti sociali elementari, operata dalla libertà. Ogni particella della massa non è più sostenuta nella sua esistenza dalla rete di relazioni organiche, e finisce con il cadere in uno stato disumano. Tutte vengono a trovarsi in una medesima situazione, senza avere tra l'una e l'altra la minima corrispondenza. Nulla le unisce più, se non la somiglianzà di situazioni prive di relazioni interne. Sono simili agli atomi di Epicuro che, per la legge di gravita, cadono paralleli nel vuoto. Alla domanda: che cos'è la massa? La risposta non può essere che: nulla. La massa non è un qualcosa che esiste: è un puro e semplice divenire, un passare dall'esistenza umana alla sua negazione. Per paradossale che possa essere, la massa non esiste, nel senso stretto della parola, se non nell'immaginazione, come l'io senza radici che la fa nascere. È immaginaria, come l'immaginaria libertà da cui discende. Esistono soltanto entità separate le une dalle altre, le une alle altre giustapposte, che la libertà totale e la distruzione delle relazioni, reali lasciano cadere come un sacco di ghiaia rovesciata. In altri termini, la massa è un fenomeno patologico secondario, che segue all'infezione principale, la libertà, e che questa infezione aggrava, fino a prenderne il posto. Quando si parla dell'irruzione delle masse nella storia, quando si grida di stare attenti alla coscienza delle masse, alle loro aspirazioni, alla loro volontà, bisogna mettere vigorosamente in luce che queste parole non hanno alcun significato reale, e non corrispondono ad alcuna realtà. Soltanto il nostro pensiero e la nostra immaginazione trattano la massa come esistente, e gli artifici del linguaggio la fanno uscire dal limbo. Elementi giustapposti che hanno perduto i loro rapporti organici, possono essere uniti in un tutto soltanto per mezzo del pensiero, e nel pensiero: un elemento messo accanto ad un altro, non farà mai due, senza l'intervento del pensiero che li unisce dall'esterno e ne effettua la somma. La massa, il "grosso animale", sono creazioni del nostro spirito, che presta una fittizia consistenza a ciò che è dispersione. Al di fuori del pensiero che li immagina, sono soltanto "membra disjecta", elementi slegati. I tecnici specializzati nel maneggiare le masse sanno bene che esse non esistono, sanno che la coscienza delle masse è una assurdità che non resiste all'esame, dal momento che essi stessi creano questa coscienza. Gli uomini che costituiscono la massa hanno una coscienza oscura e dolorosa del loro malessere, del loro mistero e della loro caduta, e l'esprimono in modo clamoroso e uniforme con il loro comportamento. Per lo più, sono incapaci di risalire fino alla originaria alterazione della libertà che sta alla base delle loro sofferenze. Così i tecnici del collettivismo - quale che sia la loro etichetta - colgono questo flusso amorfo e ribollente di atomi, ne effettuano l'addizione, e vi introducono una forma sofisticata che lo eleva a massa, e lo pone sulla scena della storia come un individuo gigantesco, del quale essi sono la coscienza lucida e tirannica. Ogni massa si scompone così in due elementi accortamente implicati l'uno nell'altro: un corpo smembrato che continuamente si sbriciola, ed una coscienza esteriore che lo sostiene e gli comunica una consistenza fittizia, la cui immensa ombra sembra una realtà. A questo punto, possiamo toccar con mano, come Tommaso l'incredulo, la finzione democratica che considera le masse come capaci di agire, mentre possono essere soltanto governate, irreggimentate e controllate dai tecnici della macchina sociale.
È un processo strettamente meccanico. Quando un numero sufficiente di io è staccato dalle sue relazioni con gli altri, con il mondo, con il principio dell'universo, sotto l'influenza di una libertà malata diffusa dall'atmosfera sociale, esso si divide immediatamente in due gruppi, che imitano dal basso i poli inferiore e superiore, d'una gerarchia viva: i condottieri - duce, fuhrer, generale, maresciallo, capo partito - ed i governati, gli io potenti e quelli deboli, gli attivi e i passivi. Non v'è quasi formazione sociale o politica, oggi, che non presenti questa caratteristica. La divisione è inevitabile: dove scompare la solidarietà organica fra i diversi mèmbri del corpo sociale, dove non ha più efficacia il rapporto reciproco e lo scambievole servirsi, rimane il solo rapporto fisico delle forze che si fronteggiano, la differenza di densità, nella quale il pensiero immaginario più potente ha automaticamente la meglio su quello più debole e lo domina e lo plasma come lo scultore fa con l'argilla. Poiché la differenza tra il forte ed il debole sta solo nell'immaginario, dove non esiste nulla che possa provocare il loro antagonismo e il loro urto, il rapporto tra di essi non è mai sentito come una costrizione. La foglia staccata dall'albero ed in balia dei venti, immaginerà sempre di essere più libera della foglia rimasta immobile e viva sul ramo. Esempio classico, Napoleone ed i suoi soldati. Superiore e inferiore si trovano entrambi involti nello stesso stato, che li rende solidali nella stessa malattia, come padre e figlio lo sono nella stessa salute.
Si crea così un surrogato meccanico del rapporto vitale fra gli uomini, nel quale l'assenza di relazioni reali è compensata da relazioni immaginarie, liberamente stabilite: tra l'altro, è il motivo per cui le patrie reali lasciano posto sempre più alle patrie ideologiche. Ora, mentre i legami reali si sostengono da soli fino a che la malattia e la morte non li hanno fiaccati, i legami immaginari esigono l'intervento costante dell'immaginazione per mantenersi in piedi. La libertà immaginaria deve dunque raddoppiare i suoi sforzi, accentuare le rotture che causa, e rincarare continuamente la dose. "Il turbine è re", diceva Aristofane; ma il crescendo della malattia diventa a lungo andare insopportabile. "Tutte le nevrosi", scrive giustamente Adler, "sono convenienti". Il che significa che ogni nevrosi finisce per installarsi in un mondo che le diventa più reale del reale stesso. Quanti uomini di parte si trovano più a loro agio al partito che non in famiglia, nel loro mestiere, o nella terra natale? Quanti piccoli borghesi collocano al di sopra di tutto la tavola d'un ristorante, o il banco d'un caffè? A quanti artisti le tiepide serre dei sistemi estetici appaiono surreali? Bisogna che la libertà immaginaria ridiventi libertà reale o, per l'esattezza, pseudo-reale, reincarnandosi nell'esistenza che ha abbandonato. È questo passaggio che definisce il suo destino e lo trasforma in una necessità.
Siamo così arrivati al centro del fenomeno che tentiamo di definire nel suo nucleo misterioso, ed apparentemente contraddittorio: l'autonegazione della libertà, la nascita della schiavitù dalla libertà stessa.
Non occorre una particolare acutezza di spirito per comprendere che quanto più è vissuta la nostra relazione con gli altri e con la natura, tanto più intensa è la libertà che l'accompagna. La nostra libertà è interamente sé stessa quando siamo con i nostri amici, con i quali parliamo francamente, del tutto a nostro agio, in maniera aperta. Con uno straniero o uno sconosciuto, invece, ci sentiamo imbarazzati, legati e costretti. Il contadino, d'altra parte, è infinitamente più libero, nel suo rispetto per le stagioni e per le esigenze della terra, di quanto non lo sia l'operaio delle immense officine moderne. Non c'è bisogno di ragionare molto per capire che il libertino è schiavo del meccanismo sessuale che egli libera, o che il tipo che passa da un palazzo all'altro è integralmente sottomesso alle regole squallide e tiranniche di posti del genere. È la libertà immaginaria, abbiamo detto, che distrugge le relazioni, crea l’io e ingrandisce le masse che, composte d'innumerevoli io, trasformano la libertà immaginaria in una schiavitù di gran lunga più terribile di tutte le tirannie conosciute dall'umanità nel corso dei secoli.
Il fenomeno è così semplice, che vien fatto di domandarsi per quale aberrazione gli uomini d'oggi non se ne siano ancora accorti, a dispetto di tante testimonianze. Il fascino del fantasma del collettivo, della libertà, è tale che anche gli spiriti migliori sono incapaci di staccare da essa lo sguardo e di fissarlo con calma sulla realtà. Viviamo in un'epoca in cui bisogna continuamente far luce sulle cose evidenti, e sfondare porte aperte.
Per meglio capire questo avvenimento unico nella storia dell'umanità, occorre cogliere la somiglianza sconcertante fra la libertà immaginaria proiettata nell'esistenza dai capi-popolo, ed una macchina imbottigliatrice. È lo stesso procedimento di meccanizzazione e di costrizione. Ne fa testimonianza il marxismo ortodosso: incentrato completamente sulla liberazione dell'uomo, tenta di realizzarla con la schiavitù, con la razionalizzazione spinta all'estremo limite dell'esistenza umana. In questo sistema, capace di penetrare in tutte le nazioni moderne, per amore o per forza, insidiosamente o violentemente, un solo essere è libero: lo stato, anonimo, impersonale, inumano, vetta della libertà patologica.
I marxisti pretendono che l'uomo cambi cambiando il mondo, mentre è esattamente il contrario: è cambiando, separandosi dal mondo e da sé stesso, che l'uomo cambia il mondo e sé stesso, imponendo loro dal di fuori l'immagine libera che se ne fa. Dall'alto il meccanismo è costituito dagli io potenti che lo immaginano, dal basso la materia è fornita dagli io deboli e dal mondo, che li accolgono: il loro insieme costituisce la massa anonima che esce dalla sua non-esistenza, e nella quale uomini e universo sono nuovamente riuniti. Uomini e universo: non c'è più differenza: entrambi sono trattati come materia. Anche gli organizzatori sono materia, perché, per imbottigliare la materia, bisogna pur esser fatti di materia. Sotto la pressione costante delle astrazioni che la inquadrano, la massa irreale prende lentamente corpo: si fa, si disfa, torna a farsi attraverso le vicissitudini e le tempeste del nostro tempo, come uno spettro immenso e mostruoso, che incorpora nella sua ombra impalpabile una parte sempre maggiore della terra e dell'umanità. L'inno alla liberazione accompagna con la sua musica magniloquente la silenziosa razionalizzazione dell'uomo e delle cose, il trionfo congiunto della "noocrazia" e della massa. Ed ecco l'evidenza e la "porta aperta": siamo noi stessi che secerniamo questo fantasma, macchina senz'anima, armatura senza vita, testuggine d'ingranaggi che c'imprigionano. La nostra libertà immaginaria, senza nessi né con la nostra realtà né con la realtà del mondo, li tira fuori dal suo sterile seno. Incapaci d'essere quello che siamo, abbiamo liberamente scelto una immagine del nostro essere separata dalla nostra realtà. Installati in questa immagine, la riproiettiamo in noi stessi. Incapaci di vivere in comunione con l'universo, ci siamo liberamente costruiti un'immagine dell'universo che reimponiamo alla sua realtà. La nostra immagine, separata da noi stessi, sempre più neutra, grigia e schematica, tenta di farsi carne, e diventa allora la massa sconosciuta e minacciosa, l'automa fabbricato con le parole, i regolamenti, le leggi e le astrazioni impietose, dappertutto presente e sempre inaccessibile, come Dio, del quale imita l'ubiquità spirituale. Noi vogliamo liberamente aver presa su noi stessi e sul mondo, senza accettare liberamente le loro relazioni, che non abbiamo fatte noi, ma sono immanenti alla natura umana: per questo ci edifichiamo da soli questa soffocante galera. Si può immaginare situazione più tragica di quella d'un prigioniero, il quale, con ogni gesto per evadere, fa nascere come per incanto nuovi muri e nuovi sbarramenti?
Contrariamente a tutte le diagnosi della medicina ufficiale, la massa, lo stato collettivo, il Minotauro della venticinquesima ora non nascono dalla costrizione, ma dalla nostra stessa libertà sregolata. Se si realizzerà un giorno il "perfetto e definitivo formicaio" di cui Valéry ebbe la visione profetica, lo dovremo al nostro consenso tacito o formale. Gli storici del futuro vedranno senza dubbio meglio di noi la causa di questa caduta della civiltà moderna, alla luce del patto che l'uomo sarà nuovamente costretto a stringere con l'universo. L'esperienza inedita che noi avremo traversato mostrerà loro che l'origine di questa crisi si trova nel disconoscimento dell'opzione radicale propria della libertà umana: affermarsi o negarsi. Noi abbiamo scelto senz'altro la negazione, l'abbiamo affermata: abbiamo detto sì al no che sollecita senza posa la nostra libertà: e così la libertà si è mutata in perpetua condanna.
È quello che prevedeva il genio di Chateaubriand: "Come sarà la nuova società? Fino ad oggi la società è andata avanti per aggregazioni, per famiglie. Quale aspetto offrirà, quando sarà soltanto più individuale, come tende a divenire? Verosimilmente, la specie umana si farà più grande, ma c'è da temere che l'uomo invece diventi più piccolo, che qualche facoltà tra le maggiori del genio si perda, che l'immaginazione, la poesia, le arti muoiano nei fori d'una società-alveare, in cui ogni individuo sarà ridotto ad un'ape, un ingranaggio d'un macchinario, un atomo nella materia organizzata. Se la religione cristiana si estinguesse, si arriverebbe, attraverso la libertà, alla pietrificazione sociale".
Concludiamo, in breve, il nostro esame. Fino a che l'uomo sarà separato da sé, dagli altri, dal mondo e da Dio, a causa d'una immagine fallace del suo essere, è vano sperare che un sobbalzo della "natura medicatrix" possa guarirci. Ridotta a questa immagine, la libertà vi si rivolterà all'infinito, come un malato nel suo letto, fino a che verrà presa dall'immobilità della morte e consegnata agli imbalsamatori. Irrisoria l'efficacia dei rimedi esterni e degli apparecchi di protesi: non c'è medicamento che possa rinvigorire un organismo in cui le arterie del nutrimento sono sclerotizzate, né occhio elettrico che possa sostituire lo sguardo umano. L'analisi, dunque, si conclude con una constatazione di impotenza...
Rimane un dovere, grande ed esaltante, che ci pone sulle spalle una responsabilità spaventosa quale soltanto la virtù della fortezza ci permette di sostenere: imbrigliare la malattia, tendere cordoni sanitari, preservare dall'epidemia le relazioni che rimangono, salvare gli isolotti di salute non ancora toccati dal contagio. Nulla ci è più necessario oggi che la fortezza d'animo, virtù cardinale che un certo fariseismo cristiano, specializzato nelle effusioni oratorie d'una giustizia e d'una carità più manifestate a parole che vissute, ci ha fatto misconoscere; virtù che consiste essenzialmente, come sottolineava Aristotele con incomparabile acutezza, nell'unione indissolubile della pazienza, dell'audacia e della speranza: "sustinere, aggredi, sperare". Fra questi isolotti parzialmente intatti c'è la famiglia: in essa lo slancio d'una sana libertà ed il voto d'una natura equilibrata si intrecciano così bene che non si possono più distinguere. Nell'intimità familiare, è immediatamente svelata ogni falsa immagine dell'essere che si sovrappone all'essere; i rapporti dell'uomo con sé stesso, con i suoi, con il mondo, si compiono con una impulsività in certo modo riflessa, e la libertà umana raggiunge senza dubbio il suo punto culminante.
Crediamo molto poco alle misure preventive d'ordine politico, fino a che la cosa pubblica sarà retta dalla legge del numero, dei partiti e delle masse? Come potrebbe la libertà essere assicurata dalla sua propria corruzione elevata al massimo esponente? Come potrebbe l'assenza totale di relazioni reali, che costituisce, per così dire, l'anima stessa dei regimi contemporanei, ricostruire le relazioni effettive in grado di garantire alla libertà la sua salvezza? Le misure politiche di protezione dei superstiti isolotti di libertà, implicherebbero evidentemente il rovesciamento totale della politica d'oggi. È ciò che si chiama generalmente, coprendosi gli occhi per non vedere, "la reazione". Ebbene, se per "reazione" si intende l'atto scaturito dalla virtù della fortezza, che consiste nell'affermazione della libertà contro tutte le sue deformazioni patologiche, allora bisogna essere risolutamente reazionari, senza paura dell'infamante etichetta. D'altra parte, è probabilmente il solo modo di essere rivoluzionari che ci rimanga. Resta da dire però che questi termini non hanno più alcun valore oggi, e va meglio non impiegarli per evitare ogni riferimento politico.
Altrettanto poco crediamo alla resistenza propria delle istituzioni sociali. Un tempo, le istituzioni sostenevano lo sforzo degli uomini, mentre oggi è lo sforzo umano che deve sostenerne la barcollante struttura. Era l'istituto del matrimonio a confortare la fedeltà degli sposi ai tempi felici della Principessa di Clèves, mentre ormai tocca agli sposi rimasti fedeli il compito di sostenere la struttura del matrimonio, lacerata dalla libertà immaginaria. Tra poco ognuno di noi si troverà direttamente in causa, e le istituzioni non ci serviranno più a nulla.
Neppure crediamo alla civiltà cosiddetta moderna, che crolla a pezzi. Ma ciò nonostante, sappiamo che le civiltà non muoiono che per far posto ad altre. Un bagaglio prezioso, inestimabile, di infinito valore, è affidato alle generazioni intermediarie: la salvaguardia delle poche leggi semplici, eterne, infinitesimali, invisibili a forza d'esser trasparenti, in cui si concentrano la libertà della natura umana e la natura umana della libertà. Per toccarle con mano, non c'è bisogno di discorsi, di filosofia: basta compiere con naturalezza, con ingenuità, i gesti familiari della vita quotidiana, basta mantenere in vita, vivendole, le relazioni che noi stringiamo con noi stessi, con gli altri, con il mondo, con Dio. Per ristretta che sia in apparenza la nostra sfera d'azione, essa conterrà allora la pienezza della libertà.
Questa la nostra missione. Da noi, esige senza dubbio sacrifici più grandi che un gesto spettacolare. Sono questi gesti semplici che rendono la libertà sacra, la incorporano alla nostra carne e al nostro sangue, la incarnano nell'esistenza che essa ha disertato; la salvano e la guariscono.
In definitiva, dipende da noi, dal nostro coraggio, dal nostro rifiuto di incensare gli idoli, che la libertà sia simboleggiata da David che danza davanti all'Arca, o dallo sguardo pietrificante della Gorgone.
di Marcel de Corte
Il rapporto fra uomo e mondo è il tema fondamentale del pensiero filosofico moderno. Filosofi e uomini della strada, tutti si preoccupano sempre di più della loro situazione precaria in seno ad un mondo che si disgrega.
È un fenomeno inevitabile, perfino banale: l'uomo si pone interrogativi su se' stesso e sul mondo, nella misura in cui non è più sicuro ne' dell'uno ne' dell'altro. Anche della salute, ci preoccupiamo solo nel momento in cui è compromessa. Così, la maggior parte dei problemi filosofici si pongono distintamente all'intelligenza soltanto quando la vita non è riuscita a risolverli. Lo dice bene una simbolica quartina di Valéry:
Autunno, o trasparenza; o solitudine accresciuta
di tristezza e di libertà,
Ogni cosa mi è chiara appena scomparsa,
ciò che non è più si fa luce.
Il problema dei rapporti fra l'uomo e il mondo, fra la libertà e la natura, è legato alla sensazione d'un certo malessere, al sentimento della disorganizzazione, alla coscienza che le cose non vanno più per il verso giusto. Non si spiegano altrimenti il successo dell'esistenzialismo e la voga del marxismo.
I nostri padri non provavano affatto l'ansia di cercare quale fosse il loro posto nel mondo: lo occupavano, e basta. Vivevano la loro relazione con l'universo. Come alberi vigorosi, affondavano le loro radici nella terra feconda del reale, e ne traevano alimento. La loro intatta potenza di assimilazione non s'interrogava sulla sua forma, o sulla sua capacità: si esercitava semplicemente in una specie di circuito vitale dall'uomo all'essere e dall'essere all'uomo. Le loro radici mangiavano il succo della terra, la clorofilla dell'albero umano beveva la luce del cielo: tra l'uomo e l'universo, era stabilito un tacito patto nuziale. Arrivavano tempeste e cataclismi, e gli uomini resistevano: riserve di un mondo inferiore e di un mondo superiore erano accumulate nella loro linfa.
L'uomo d'oggi ha rotto questo patto. Hegel è stato il primo filosofo ad aver tentato di orchestrare questa dissonanza, la cui eco si ripercuote ora in tutti i cuori, con la celebre teoria della "coscienza infelice", angosciata dal suo collocarsi in un mondo estraneo alla sua libera natura, che corre da un capo all'altro dei suoi scritti. Certo, Hegel ha avuto il merito incontestabile di sottolineare il turbamento di cui soffre l'uomo moderno, ed è questo che spiega il suo prestigio. Senza averlo letto, siamo tutti impregnati del suo pensiero, perché siamo saturi della sua esperienza. Non c'è bisogno di sentire il sinistro rintocco della venticinquesima ora, per capire che siamo esiliati in un mondo che ci divora con la sua terribile estraneità.
Hegel e i suoi successori vanno però completamente fuori strada, quando passano alla diagnosi della malattia che mina la relazione fra l'uomo e il mondo. Secondo loro, la natura della malattia è semplice: la coscienza è infelice nel mondo, perché essa è per natura libera, mentre il mondo non lo è. Basterà quindi mutare il mondo secondo gli imperativi della sua stessa coscienza, perché essa ne sia beata e felice. Il che significa in altre parole che essi constatano una frattura fra l'uomo e il mondo, e propongono come rimedio l'aggravamento della frattura stessa, l'amputazione della parte separata e la sua sostituzione con un apparecchio di protesi. Il male, spinto al massimo grado, scaccia il male. Mai essi si pongono la domanda se per caso lo smarrimento dell'uomo nel mondo non sia dovuto all'uomo stesso, al suo rifiuto di assumere, di fronte al mondo, un atteggiamento umano, ad una scissione del rapporto reciproco, da lui stesso provocata. E lo prova l'esame delle loro filosofie: che si tratti di Hegel, di Marx o di Sartre, si vede immediatamente che la loro concezione dell'uomo è quella d'un essere mutilato, privo di quella capacità d'adattamento al mondo che si chiama vita, ridotto allo spirito, al pensiero tecnico, al "per sé". L'uomo non è mai, in questi filosofi, un essere organico le cui facoltà di conoscere, di sperimentare, di amare, di pensare e di agire funzionano articolate le une alle altre, le une delle altre partecipi, come gli organi di un corpo nel pieno vigore; ma è invece un essere disincarnato, ridotto al pensiero, puro spirito, intelligenza confusa con le viscere, coscienza di sé, incapace di mantenere la vivente comunione degli elementi che lo compongono. Filosofie da eunuchi, con tutte le compensazioni dialettiche ed immaginarie che questo stato richiede.
Come stupirsi allora che l'uomo sia separato dal mondo, dal momento che è separato da se stesso, e ridotto ad essere soltanto questo, o quello? Uomo e mondo sono separati perché l'uomo è egli stesso separato, "out of joints". Il divorzio fra l'uomo e la realtà è preceduto da una scissione nell'unità dell'uomo stesso. E dalla ferita di questa scissione, sfugge a goccia a goccia l'anima, principio di vita, potere di relazione, facoltà di comunione fra le componenti dell'essere umano, e fra questo e il mondo. Per questo la maggior parte degli uomini muore prima di aver vissuto, e la terra è popolata di spettri più che di viventi. Il bando in cui la filosofia moderna ha gettato il concetto di anima, riservato ormai ai predicatori, si spiega con un oscuro risentimento contro l'impotenza a vivere, compensata dai meccanismi dell'intelligenza che girano a vuoto, e dalla frenesia dell'azione. L'uomo moderno si sente in un mondo senz'anima, perché egli stesso è senz'anima, e ricerca morbosamente il suo posto in un mondo diventato tenebroso e ostile perché possiede soltanto un'anima cachettica e prigioniera, incapace di unificare il suo essere e di accordare pensiero e condotta all'universo.
Sarebbe falso d'altronde credere che quest'atteggiamento sia caratteristico dei filosofi soltanto. L'esistenza quotidiana ce ne offre esempi quanto mai precisi.
Il funzionario, la cui intelligenza, convertita in regolamenti giuridici, si dispiega soltanto più all'interno di un soffocante formalismo: più nessuna relazione fra il suo essere asfissiato dalle scartoffie e la presenza degli altri esseri.
L'artista, cerebralizzato fino alle midolla, che opera solo in base ad un sistema precostituito: che cosa potrà ancora cogliere dei segreti del volto umano o della natura?
Gli uomini cosiddetti di mondo, il cui pensiero si è adattato a non essere altro che un insieme di ricette più o meno brillanti; le loro relazioni, null'altro che una radicale assenza di relazioni effettive.
L'uomo della strada, con la testa piena d'opinioni prefabbricate, di utopie masticate e rimasticate, stipata di concezioni politiche e sociali di cui ordina a parole la fumosa architettura. L'"altro" in carne ed ossa, è fuori del campo delle sue percezioni.
L'amante, in preda all'idea fissa del sesso, il professore ebbro di teorie, il finanziere prigioniero delle sue cifre, il fazioso, il dottrinario. Ecco la legione dei nostri contemporanei, la cui mente, vasta o mediocre che sia, non ha più nulla di comune con l'anima e ricerca disperatamente, con fanatismo, un punto nel quale inserirsi nella realtà. I loro pensieri e i loro atti sono liberi, ma la loro mente volteggia da un oggetto all'altro, senz'alcun appiglio o relazioni, se non con se' stessa. Sono liberi, sì, ma qui, nel cerchio delle regole, dei sistemi, delle convenzioni, delle idee e delle ideologie concepite dalla loro mente. Al di là di questo limite, al di là della coscienza o dello spirito che ha liberamente aderito a se' stesso e solo a se' stesso, incomincia il regno della costrizione e della necessità, s'innalza l'avversario che bisogna piegare, il nemico della libertà.
Il conflitto esplode innanzi tutto nel profondo del loro stesso essere. Il funzionario che elabora liberamente le sue regole astratte, l'artista legato alle sue creazioni sistematiche, l'uomo della strada imprigionato nelle sue nuvolaglie, devono innanzi tutto lottare contro l'uomo che essi sono, convenire cioè tutta la loro sostanza umana in spirito di funzionario, di logico, di riformatore, ecc... Per godere di una libertà sessuale senza impacci, bisognerà che l'uomo diventi sesso fin nelle unghie.
Per accedere alla libertà delle teorie, bisognerà che si trasformi in teoria. Per entrare nella libertà del "mondo", bisognerà che si trasformi in un essere convenzionale. Per ottenere la libertà politica, sociale, economica, dei suoi sogni, bisognerà che si politicizzi, si socializzi, si trasformi in produttore, e così di seguito. Tutti i giorni ci vediamo intorno persone che hanno ottenuto sulla loro qualità di uomini completi la costosa vittoria di essere soltanto più questo o quello, e che, ostentando i loro monconi, si credono esseri umani perfetti. La nostra epoca si è specializzata nella diffusione di queste tecniche di taglio, castrazione, dissezione e mozzatura. Non passa attimo senza che stampa, radio, cinema, o l'ambiente soffocante della collettività, non ci persuadano a stenderci sul letto di Procuste, per una liberazione che mutila, e queste pratiche di vivisezione umana sono così diffuse che non suscitano più nessuna reazione. Ci offriamo sorridenti al bisturi incantatore, per essere padroni e liberi nella stretta sezione del nostro essere che abbiamo scelto, o abbiamo accettato dietro persuasione.
Ma la nostra disfatta non pone termine al conflitto.
Sradicata dal nostro essere, la nostra nuova condizione è sradicata dall’essere: di fronte a noi c'è ora un mondo tetro, incomprensibile, nemico, che ci pone di fronte ostacoli che dobbiamo piegare. In realtà, noi rimaniamo senza un vero mondo intorno a noi: priva d'ogni rapporto con l'uomo reale solidale con il mondo reale, la nostra libertà è inesorabilmente condannata a costruire un mondo nuovo che le sia conforme, e che si sostituisca al mondo umano, progressivamente annientato. Ecco come nascono, sotto i nostri occhi, i mondi artificiali: quello del funzionario, quello dell'intellettuale, quello del politico, dell'uomo "di mondo", dello scienziato, e così via, nei quali invano cerchiamo il mondo dell'uomo. Questi mondi che ci lasciano continuamente con la nostra fame e la nostra sete - se abbiamo conservato in noi qualche scintilla d'anima - sono le pelli gonfiate dallo spirito umano disincarnato, che ha optato segretamente per se stesso, ad esclusione di tutto il resto.
Ne segue fatalmente una duplice conseguenza. Quanto più questi mondi artificiali generati dalla mente si realizzeranno nell'esistenza e passeranno nei fatti, tanto più la libertà che li pervade all'origine sarà respinta all'interno del pensiero, e abbandonerà l'uomo in carne ed ossa ai peggiori automatismi. Quanto più la libertà si rifugia in seno al settore che si è scelto, per essere soltanto più questo o quello, tanto più si carica di determinazioni che l'aboliscono. Ne fa testimonianza l'esempio della libertà sessuale: il libertino è non solo prigioniero del mondo della sessualità che egli si è costruito, ma la sua libertà si trasforma sempre più in un tropismo sessuale: al limite, non è più che una parola che nasconde il suo contrario. Non è poi del tutto paradossale affermare che fra la coscienza del libertino, assillata dal sesso, e la coscienza hegeliana, non esiste la minima differenza. Sono due coscienze avulse dall'uomo reale e dal mondo reale. La prima diventa un meccanismo dialettico, l'altra una macchina per fare l'amore, ed entrambe sono condannate a trasformare il mondo al loro livello, per essere inseparabilmente libere e schiave dei loro ingranaggi. Il paragone potrebbe andare oltre: fra la dialettica hegeliana e quella dongiovannesca, sono assai più considerevoli le rassomiglianze concrete che le differenze.
Schema ancora approssimativo, questo, che tuttavia può orientare il diagnostico verso una certezza: si tratti del filosofo o d'uno qualunque di noi, l'evoluzione patologica della libertà umana si rivela strettamente dipendente da una intima frattura che la mente ha prodotto fra se' stessa e l'uomo concreto. Questa prima crepa ne determina un'altra fra l'uomo e il mondo. Gli uomini d'oggi sono affannati dall'essere se stessi e dal collocarsi nel reale, vogliono essere uomini nuovi in un mondo nuovo, perché si sono slegati da quella duplice relazione (da sé a sé, e da sé al mondo) che costituisce la struttura e il mistero essenziale dell'uomo; perché sono liberi in senso morboso, come sangue senza arterie, come linfa senza canali.
Ma perché la libertà si mette su questa strada che finisce per tradirla, mentre spera di trovarvi il suo compimento? Circostanze, pressione sociale, stimoli patologici esterni, fattori ereditari, educazione, pur esercitando una notevole influenza, sono soltanto cause superficiali. Vale sempre il vecchio adagio scolastico: quid-quid recipitur ad modum recipientis recipitur. È tutta questione di terreno, ed il terreno è l'uomo. Non si comprenderà nulla dell'enigma della libertà finché non si sarà compreso che l'essenza dell'uomo sta nell'essere uno o molti, e che lo spirito possiede il terribile potere di incarnarsi nella concreta totalità dell'uomo per illuminarla della sua fiamma, oppure di disincarnarsi per raccogliersi in se' stesso, in un tutto autonomo. L'uomo è sempre suscettibile di essere se' stesso o di non esserlo, in funzione della sua libertà. È alla frontiera dell'essere o del nulla, gode del sovrano privilegio di essere uomo o di non esserlo, di essere fedele a se' stesso o spergiuro nei suoi stessi confronti. Essere votato alla salvezza o alla perdizione, costituisce un carattere intrinseco e metafisico della sua natura. In ogni istante della vita, ci è dato di rompere o mantenere la relazione del nostro spirito col nostro essere totale; in ogni istante, possiamo essere soltanto questo o quello, oppure quello che siamo veramente. In altre parole, la libertà dell'uomo è sempre alternativa e ambivalenza; s'afferma o si nega da sola, con una specie di allentamento o di ripresa di sé.
Il suo destino è quello di affermare la relazione dello spirito all'essere nel quale si incarna, e al mondo nel quale siamo, oppure di spezzare questo rapporto e di disorganizzare l'uomo e il mondo, liberando lo spirito da ogni legame vivente. Come la lingua di Esopo, la libertà umana è la migliore o la peggiore delle cose: è la salute che fiorisce o la malattia che dissecca, lo sviluppo o la contrazione, la fecondità o la sterilità, la promessa o la minaccia, la pace o la guerra: un Giano bifronte.
Indubitabile dunque che la libertà inizi il suo ciclo d'evoluzione patologica quando lo spirito si astrae dal campo delle relazioni, dalla rete di arterie e di vene, di radici e di canali che ci lega a noi stessi e al mondo. Se esaminiamo il singolare rapporto che ci lega a noi stessi, e del quale la maggior parte degli uomini sembra aver perduto il senso, vediamo subito che è inutile volerselo rappresentare prima di viverlo. Logicamente anteriore alla sua rappresentazione intellettuale, ne è la presenza: la realtà di un essere viene prima della sua immagine riprodotta da uno specchio: la presenza del nostro essere a noi stessi è condizione preliminare di tutto ciò che possiamo pensarne. Assurdo dunque pretendere di pensarsi, prima di essere: in questo senso, il "cogito" cartesiano, se vuol essere qualcosa di più di una enunciazione teorica, risulta un sintomo di sviamento, di nevrosi, di schizofrenia, almeno embrionale. Un tentativo del genere implica già il processo di disincarnazione, con il quale l'uomo esce liberamente da se' stesso per sdoppiarsi. Bisogna pur dire, a rischio di passar per bestie agli occhi dei filosofi ingenui, che psicopatia e filosofia sono spesso sinonimi.
Che cosa significa allora essere se stessi, presenti a se stessi? Impossibile dirlo, impossibile illuminare questa situazione fondamentale, collocandosene al di fuori. Occorre innanzi tutto viverla. Allora, e soltanto allora, il suo mistero sparisce, ed essa diventa fonte di luce, simile ad un faro che ci acceca se lo guardiamo di fronte, rimanendone al di fuori, mentre rende visibile ogni cosa se ci mettiamo nel suo centro luminoso, e nell'asse del suo irraggiamento. Essere presenti a sé non è null'altro che volgere senza debolezze la propria attenzione dal di dentro al di fuori, raccogliersi su di sé come l'animale alla posta e, come questo, fissare lo sguardo sulla preda, non per divorarla ma per accoglierla; essere luce per contemplare la luce che rischiara il mondo. La presenza di sé a sé stesso, e la presenza al mondo, sono assolutamente correlative. L'uomo senza crepe, tutto d'un pezzo, senza duplicità, è colui che intesse con il reale i più numerosi e più vivi rapporti: i santi, i geni, gli eroi, massime incarnazioni di uomo, aperti indefinitamente agli altri e al mondo. L'unità del loro essere è inseparabile dalla loro relazione con l'universo.
E dov'è in tutto questo la libertà? Ebbene, essa è proprio qui, sotto i nostri occhi. Quanto più l'uomo è presente a sé, e rifiuta la scissione interiore, tanto più scopre il suo accordo con il mondo, e tanto più lo considera come un fratello e un punto d'appoggio, anziché un nemico o un ostacolo. Nulla gli pesa nell'universo: il mondo gli corrisponde nella sua totalità. Obbedienza all'essere e libertà sono proprio la stessa cosa. Obbedire ed essere liberi diventano sinonimi, dal momento che io accetto di essere uomo. Nello stesso modo, ogni organo del corpo funziona liberamente, senza pena, senza fatica e senza schiavitù, quando obbedisce alla sua legge e, obbedendo alla sua legge, s'accorda con l'insieme del corpo. La salute organica è proprio l'immagine più adeguata della libertà.
Ne viene un paradosso inaudito, inconcepibile, salvo che alla parte più fine e segreta dell'anima: la libertà non diventa assoluta se non nella misura in cui consente ad essere relativa e ad inserirsi nel tessuto vivo di relazioni concrete che costituiscono l'uomo e il mondo. La libertà è una rinuncia totale all’autonomia, al potere che io ho di darmi una mia propria legge, al potere che ho di dire io. L'uomo diventa se' stesso solo quando cessa di dire io.
Questa breve analisi mostra come la vera libertà si collochi al di là delle nostre possibilità. Quello che importa, è di tener presente tutto ciò e di avvicinarsi alla libertà il più possibile, attraverso un'amorosa attenzione al reale.
"Solidarietà con l'essere" non significa affatto abbandono passivo: è invece un atto di virilità, dì forza e d'amore, che supera la dispersione interiore a favore della quale l'io instaura il suo dominio. Eppure nulla ci è più difficile dello sforzo che, se arrivasse in porto, apporterebbe una gioia purissima. Preferiamo invece interporre il nostro io fra noi stessi e le cose, per avere l'illusione di governarle e di muoverci in piena libertà d'indipendenza. Preferiamo rinunciare al semplice e duro lavorio d'incarnazione dello spirito nella vita. Nella nostra ansia di realizzare una libertà che ci figuriamo perfetta, abbandoniamo una conquista vera per un'ombra. Siamo sì ancora e sempre liberi, ma in un altro modo: il diaframma dell'io interrompe il nostro rapporto con la realtà, la nostra libertà si riduce ad una fuga nell'immaginario. Si scatena in noi, secondo la bella definizione di Joubert, una "voracità senza preda".
Possiamo a questo punto fare una diagnosi più precisa della libertà patologica. La nostra libertà s'infetta, quando si concentra nel nostro caratteristico potere di dire io, e diventa perciò immaginaria. Queste due condizioni sono poi la stessa cosa. Io è soltanto un pronome, messo al posto del nome vero, sostituito al mio essere, che si trova per sua natura in relazione con la totalità dell'essere, e con il suo Principio. Io è una entità grammaticale, la cui essenza sta nel rinviare ad una realtà diversa da sé e, dal momento che cessa questo rinvio, diventa immaginaria. L'io puro e semplice esiste solo nell'immaginazione, ma, in questo suo rifugio, esiste e regna sovrano. Rifluiscono a lui la linfa ed il sangue di tutte le relazioni interrotte: da surrogato di quell'essere di relazione che è l'uomo, l’io diventa il centro verso cui convergono tutti gli aspetti dell'universo. Tutta la nostra potenza d'amare si volge verso di lui, l'io diventa un idolo, perché non c'è mai altro idolo che l'io. E come l'immaginazione, l'idolo dell'ho è vuoto: non ha dentro di sé che il nulla.
Ora, qualunque cosa faccia, l'uomo è incapace d'essere realmente egoista. L'egoismo umano è una leggenda assurda. Noi amiamo noi stessi, in quanto collegati alla creazione ed al Creatore, oppure l’immagine di noi stessi, che si sovrappone al nostro essere mutilato dalla volontaria rottura dei nostri legami, e che ci risucchia.
Nel suo bel romanzo, Meredith ci presenta il suo eroe che innalza un altare permanente al fantasma del suo essere. L'avaro e il sensuale fanno la stessa cosa: non venerano se' stessi, ma la loro immagine nell'oro e nella donna che posseggono. Ciò che chiamiamo egoismo non ci sembrerebbe così riprovevole, se contenesse una realtà; invece, la rivolta che suscita in noi è dovuta alla paura del nulla che esso nasconde. Noi sentiamo il vuoto che si cela nell'egoismo, e ne proviamo una vertigine, come sull'orlo d'un abisso. L'egoista invece non vede questo nulla: non ha possibilità di ritorno rispetto al non essere, perché è proprio il non essere. Gli innumerevoli sacrifici dell'egoista sono fatti a priori: come il santo e l'eroe, l'egoista s'è spogliato di tutto: una sola cosa non ha dimenticato: la sua immagine. La sua libertà malata ha sbagliato Dio. Il mondo d'oggi è pieno di queste consacrazioni a rovescio, e camuffate.
Camuffate, diciamo: non solo perché è molto raro vedere il soggettivismo della libertà mostrarsi nella sua pienezza, ma soprattutto perché gli è essenziale tradursi in termini generali che s'adattino ad una quantità d'individui, se non all'intera umanità. Sul piano del reale, non c'è cosa che possa sostituirne un'altra: ogni essere recita la sua parte, e nessuno può sostituirglisi. Il contrario accade nel campo dell'immagine in cui si ritira l'uomo che si sdoppia, È caratteristica dell'immagine quella di potersi moltiplicare, e di adattarsi al maggior numero possibile di uomini. Se immagino di essere libero spezzando le catene che mi uniscono al mondo, la mia immaginaria idea della libertà sarà tanto più universale, quanto più è nulla: essendo nulla, s'adatta a tutto e a tutti. L'egoista crede tutti gli uomini egoisti; l'uomo falsamente libero presume che tutti gli altri siano come lui. Se non lo sono, significa che sono schiavi, e che bisogna liberarli dalla loro schiavitù. La mia libertà immaginaria non è mai esclusivamente mia. Librandosi al di sopra del mondo degli uomini, ove ciascuno è unico ed insostituibile, diventa di colpo quella di tutti gli altri. Michelet ha ingenuamente espresso questo concetto, quando ha scritto che la libertà che chiama rivoluzionaria è un dono che egli fa, attraverso la Francia, al genere umano. Bisogna dire che ha oggi molti emuli di livello inferiore.
Soggettivismo e universalismo della libertà sono due facce dello stesso atteggiamento spirituale. Io non posso essere io se tutti gli uomini non sono degli io dello stesso genere. Tanto più avverto questa vocazione all'universale, quanto più respingo nel subcosciente, sotto il fluire di similitudini che mi confortano, l'oscura e lancinante intuizione del nulla che mi abita: una malattia che si estende a tutti non ha molta probabilità di essere sconfitta, e si può perfino pensare che sia scambiata per la salute. Basta ricondurre tutte le libertà sradicate al caso evidente e significativo della libertà sessuale, per constatare come queste non ne siano che la ripetizione: chi sogna la libertà sessuale, è costretto a diventarne l'apostolo ed a diffondere la buona novella dell'emancipazione, sotto il pretesto d'un progresso dell'uomo e della donna.
L'effetto più terribile della libertà non collegata alla realtà è così la contagiosità: essa trasferisce il pensiero in un mondo plastico, malleabile, indefinito, senza limiti né frontiere; lo rende incapace di stare in contatto con il concreto, con la realtà presente, e lo colloca in piena astrazione universale. Ma, dato che siamo fatti, perfino nelle nostre illusioni, per la realtà, abbiamo bisogno che l'astrazione diventi carne. L'essere dal quale siamo separati ci chiama, la sua voce ci invita a trasferire l'illusione nell'esistenza, perché non rimanga una illusione.
Un tentativo del genere è sempre possibile: con un po' di fantasia, possiamo sempre introdurre l'immaginario nel reale. La tecnica ci offre quotidianamente degli esempi: il progetto d'un ponte può trasformarsi in un ponte reale. Basta osservare come lo sviluppo delle tecniche sia perfettamente parallelo all'epidemia della libertà.
Quante volte del resto la tecnica della conversazione con sé stessi o con altri inserisce a forza nella realtà le nostre illusioni, le nostre menzogne, le maldicenze, le calunnie!
La contagiosità ha anche un altro aspetto: tutte le volte che soffriamo d'un male, siamo disposti a diffonderlo. L'orrore istintivo che abbiamo del male ci porta a diminuirlo trasmettendolo ad altri: è un istinto che difficilmente si può soffocare.
Il proselitismo della libertà è una liberazione personale che si sfoga nel linguaggio, come il dolore nel grido che scuote i nostri simili ed allevia i nostri tormenti con la compassione che suscita. Proclamiamo la nostra libertà, perché ciascuno prenda parte al suo vuoto, e lo riempia con la sua presenza. La nostra nuova libertà ci angoscia e, come un uomo che cammina da solo nella notte parla ad alta voce per rassicurarsi, noi gettiamo fra noi e gli altri la barcollante passerella del linguaggio, che fa da veicolo al nostro male.
Questi fragili legami imitano le relazioni che ci mancano. Uno dei sintomi più precisi di una libertà malata è il discorso che la riveste: una libertà che parla di sé stessa è quasi sempre una falsa libertà, perché le vere libertà sono pudiche e silenziose come la vita.
Il contagio della libertà non è soltanto inconscio e spontaneo: è anche volontario e aggressivo. Astratta com'è, il concreto le ripugna: immaginaria, il reale la tormenta; collocata interamente nell'io, essa scatena una lotta mortale contro chiunque le resista e non le sia identico. C'è tutta una serie di caratteristiche fondamentali della struttura della libertà patologica: innanzi tutto, la volontà di distruggere; essa annienta le libertà, come testimonia l'esperienza storica. Dove regna la libertà astratta, spariscono le libertà familiari, comunali, regionali. I privilegi, fiore delle relazioni sociali intensamente vissute, e in un certo modo frutto, carico di effettive libertà, della loro linfa, sono radicalmente eliminati. La libertà sradicata s'affanna a strappare le ultime radici delle altre. In secondo luogo, lo spirito di crociata, di critica distruttiva e di propaganda al tempo stesso. Inutile insistere su questo punto. Infine, l'egualitarismo, l'odio per le gerarchie, il livellamento in basso, risultato dell'alleanza fra l'astrazione immaginaria, nemica d'ogni differenza, e l'io che costituisce la parte più meschina dell'anima umana. I tre caratteri si trovano tali e quali nelle malattie infettive che colpiscono il corpo, provocano la febbre, e riducono la diversità dell'organico alla polverosa omogeneità del cadavere.
Quest'ultimo punto è d'importanza capitale. C'è un disgregamento sociale simile a quello che Augusto Lumière attribuisce alle cellule di un organismo morto.
Sotto la pressione della libertà malata, gli elementi del corpo sociale uniti in rapporti organici perdono la loro capacità di scambi reciproci, si giustappongono, si raggrumano, formano dei mucchi, e costituiscono quello che si chiama oggi "l'avvento delle masse". Lo ha descritto "ante litteram" Fiatone nel mito del "grosso animale".
La massa è soltanto il prodotto della disgregazione dei rapporti sociali elementari, operata dalla libertà. Ogni particella della massa non è più sostenuta nella sua esistenza dalla rete di relazioni organiche, e finisce con il cadere in uno stato disumano. Tutte vengono a trovarsi in una medesima situazione, senza avere tra l'una e l'altra la minima corrispondenza. Nulla le unisce più, se non la somiglianzà di situazioni prive di relazioni interne. Sono simili agli atomi di Epicuro che, per la legge di gravita, cadono paralleli nel vuoto. Alla domanda: che cos'è la massa? La risposta non può essere che: nulla. La massa non è un qualcosa che esiste: è un puro e semplice divenire, un passare dall'esistenza umana alla sua negazione. Per paradossale che possa essere, la massa non esiste, nel senso stretto della parola, se non nell'immaginazione, come l'io senza radici che la fa nascere. È immaginaria, come l'immaginaria libertà da cui discende. Esistono soltanto entità separate le une dalle altre, le une alle altre giustapposte, che la libertà totale e la distruzione delle relazioni, reali lasciano cadere come un sacco di ghiaia rovesciata. In altri termini, la massa è un fenomeno patologico secondario, che segue all'infezione principale, la libertà, e che questa infezione aggrava, fino a prenderne il posto. Quando si parla dell'irruzione delle masse nella storia, quando si grida di stare attenti alla coscienza delle masse, alle loro aspirazioni, alla loro volontà, bisogna mettere vigorosamente in luce che queste parole non hanno alcun significato reale, e non corrispondono ad alcuna realtà. Soltanto il nostro pensiero e la nostra immaginazione trattano la massa come esistente, e gli artifici del linguaggio la fanno uscire dal limbo. Elementi giustapposti che hanno perduto i loro rapporti organici, possono essere uniti in un tutto soltanto per mezzo del pensiero, e nel pensiero: un elemento messo accanto ad un altro, non farà mai due, senza l'intervento del pensiero che li unisce dall'esterno e ne effettua la somma. La massa, il "grosso animale", sono creazioni del nostro spirito, che presta una fittizia consistenza a ciò che è dispersione. Al di fuori del pensiero che li immagina, sono soltanto "membra disjecta", elementi slegati. I tecnici specializzati nel maneggiare le masse sanno bene che esse non esistono, sanno che la coscienza delle masse è una assurdità che non resiste all'esame, dal momento che essi stessi creano questa coscienza. Gli uomini che costituiscono la massa hanno una coscienza oscura e dolorosa del loro malessere, del loro mistero e della loro caduta, e l'esprimono in modo clamoroso e uniforme con il loro comportamento. Per lo più, sono incapaci di risalire fino alla originaria alterazione della libertà che sta alla base delle loro sofferenze. Così i tecnici del collettivismo - quale che sia la loro etichetta - colgono questo flusso amorfo e ribollente di atomi, ne effettuano l'addizione, e vi introducono una forma sofisticata che lo eleva a massa, e lo pone sulla scena della storia come un individuo gigantesco, del quale essi sono la coscienza lucida e tirannica. Ogni massa si scompone così in due elementi accortamente implicati l'uno nell'altro: un corpo smembrato che continuamente si sbriciola, ed una coscienza esteriore che lo sostiene e gli comunica una consistenza fittizia, la cui immensa ombra sembra una realtà. A questo punto, possiamo toccar con mano, come Tommaso l'incredulo, la finzione democratica che considera le masse come capaci di agire, mentre possono essere soltanto governate, irreggimentate e controllate dai tecnici della macchina sociale.
È un processo strettamente meccanico. Quando un numero sufficiente di io è staccato dalle sue relazioni con gli altri, con il mondo, con il principio dell'universo, sotto l'influenza di una libertà malata diffusa dall'atmosfera sociale, esso si divide immediatamente in due gruppi, che imitano dal basso i poli inferiore e superiore, d'una gerarchia viva: i condottieri - duce, fuhrer, generale, maresciallo, capo partito - ed i governati, gli io potenti e quelli deboli, gli attivi e i passivi. Non v'è quasi formazione sociale o politica, oggi, che non presenti questa caratteristica. La divisione è inevitabile: dove scompare la solidarietà organica fra i diversi mèmbri del corpo sociale, dove non ha più efficacia il rapporto reciproco e lo scambievole servirsi, rimane il solo rapporto fisico delle forze che si fronteggiano, la differenza di densità, nella quale il pensiero immaginario più potente ha automaticamente la meglio su quello più debole e lo domina e lo plasma come lo scultore fa con l'argilla. Poiché la differenza tra il forte ed il debole sta solo nell'immaginario, dove non esiste nulla che possa provocare il loro antagonismo e il loro urto, il rapporto tra di essi non è mai sentito come una costrizione. La foglia staccata dall'albero ed in balia dei venti, immaginerà sempre di essere più libera della foglia rimasta immobile e viva sul ramo. Esempio classico, Napoleone ed i suoi soldati. Superiore e inferiore si trovano entrambi involti nello stesso stato, che li rende solidali nella stessa malattia, come padre e figlio lo sono nella stessa salute.
Si crea così un surrogato meccanico del rapporto vitale fra gli uomini, nel quale l'assenza di relazioni reali è compensata da relazioni immaginarie, liberamente stabilite: tra l'altro, è il motivo per cui le patrie reali lasciano posto sempre più alle patrie ideologiche. Ora, mentre i legami reali si sostengono da soli fino a che la malattia e la morte non li hanno fiaccati, i legami immaginari esigono l'intervento costante dell'immaginazione per mantenersi in piedi. La libertà immaginaria deve dunque raddoppiare i suoi sforzi, accentuare le rotture che causa, e rincarare continuamente la dose. "Il turbine è re", diceva Aristofane; ma il crescendo della malattia diventa a lungo andare insopportabile. "Tutte le nevrosi", scrive giustamente Adler, "sono convenienti". Il che significa che ogni nevrosi finisce per installarsi in un mondo che le diventa più reale del reale stesso. Quanti uomini di parte si trovano più a loro agio al partito che non in famiglia, nel loro mestiere, o nella terra natale? Quanti piccoli borghesi collocano al di sopra di tutto la tavola d'un ristorante, o il banco d'un caffè? A quanti artisti le tiepide serre dei sistemi estetici appaiono surreali? Bisogna che la libertà immaginaria ridiventi libertà reale o, per l'esattezza, pseudo-reale, reincarnandosi nell'esistenza che ha abbandonato. È questo passaggio che definisce il suo destino e lo trasforma in una necessità.
Siamo così arrivati al centro del fenomeno che tentiamo di definire nel suo nucleo misterioso, ed apparentemente contraddittorio: l'autonegazione della libertà, la nascita della schiavitù dalla libertà stessa.
Non occorre una particolare acutezza di spirito per comprendere che quanto più è vissuta la nostra relazione con gli altri e con la natura, tanto più intensa è la libertà che l'accompagna. La nostra libertà è interamente sé stessa quando siamo con i nostri amici, con i quali parliamo francamente, del tutto a nostro agio, in maniera aperta. Con uno straniero o uno sconosciuto, invece, ci sentiamo imbarazzati, legati e costretti. Il contadino, d'altra parte, è infinitamente più libero, nel suo rispetto per le stagioni e per le esigenze della terra, di quanto non lo sia l'operaio delle immense officine moderne. Non c'è bisogno di ragionare molto per capire che il libertino è schiavo del meccanismo sessuale che egli libera, o che il tipo che passa da un palazzo all'altro è integralmente sottomesso alle regole squallide e tiranniche di posti del genere. È la libertà immaginaria, abbiamo detto, che distrugge le relazioni, crea l’io e ingrandisce le masse che, composte d'innumerevoli io, trasformano la libertà immaginaria in una schiavitù di gran lunga più terribile di tutte le tirannie conosciute dall'umanità nel corso dei secoli.
Il fenomeno è così semplice, che vien fatto di domandarsi per quale aberrazione gli uomini d'oggi non se ne siano ancora accorti, a dispetto di tante testimonianze. Il fascino del fantasma del collettivo, della libertà, è tale che anche gli spiriti migliori sono incapaci di staccare da essa lo sguardo e di fissarlo con calma sulla realtà. Viviamo in un'epoca in cui bisogna continuamente far luce sulle cose evidenti, e sfondare porte aperte.
Per meglio capire questo avvenimento unico nella storia dell'umanità, occorre cogliere la somiglianza sconcertante fra la libertà immaginaria proiettata nell'esistenza dai capi-popolo, ed una macchina imbottigliatrice. È lo stesso procedimento di meccanizzazione e di costrizione. Ne fa testimonianza il marxismo ortodosso: incentrato completamente sulla liberazione dell'uomo, tenta di realizzarla con la schiavitù, con la razionalizzazione spinta all'estremo limite dell'esistenza umana. In questo sistema, capace di penetrare in tutte le nazioni moderne, per amore o per forza, insidiosamente o violentemente, un solo essere è libero: lo stato, anonimo, impersonale, inumano, vetta della libertà patologica.
I marxisti pretendono che l'uomo cambi cambiando il mondo, mentre è esattamente il contrario: è cambiando, separandosi dal mondo e da sé stesso, che l'uomo cambia il mondo e sé stesso, imponendo loro dal di fuori l'immagine libera che se ne fa. Dall'alto il meccanismo è costituito dagli io potenti che lo immaginano, dal basso la materia è fornita dagli io deboli e dal mondo, che li accolgono: il loro insieme costituisce la massa anonima che esce dalla sua non-esistenza, e nella quale uomini e universo sono nuovamente riuniti. Uomini e universo: non c'è più differenza: entrambi sono trattati come materia. Anche gli organizzatori sono materia, perché, per imbottigliare la materia, bisogna pur esser fatti di materia. Sotto la pressione costante delle astrazioni che la inquadrano, la massa irreale prende lentamente corpo: si fa, si disfa, torna a farsi attraverso le vicissitudini e le tempeste del nostro tempo, come uno spettro immenso e mostruoso, che incorpora nella sua ombra impalpabile una parte sempre maggiore della terra e dell'umanità. L'inno alla liberazione accompagna con la sua musica magniloquente la silenziosa razionalizzazione dell'uomo e delle cose, il trionfo congiunto della "noocrazia" e della massa. Ed ecco l'evidenza e la "porta aperta": siamo noi stessi che secerniamo questo fantasma, macchina senz'anima, armatura senza vita, testuggine d'ingranaggi che c'imprigionano. La nostra libertà immaginaria, senza nessi né con la nostra realtà né con la realtà del mondo, li tira fuori dal suo sterile seno. Incapaci d'essere quello che siamo, abbiamo liberamente scelto una immagine del nostro essere separata dalla nostra realtà. Installati in questa immagine, la riproiettiamo in noi stessi. Incapaci di vivere in comunione con l'universo, ci siamo liberamente costruiti un'immagine dell'universo che reimponiamo alla sua realtà. La nostra immagine, separata da noi stessi, sempre più neutra, grigia e schematica, tenta di farsi carne, e diventa allora la massa sconosciuta e minacciosa, l'automa fabbricato con le parole, i regolamenti, le leggi e le astrazioni impietose, dappertutto presente e sempre inaccessibile, come Dio, del quale imita l'ubiquità spirituale. Noi vogliamo liberamente aver presa su noi stessi e sul mondo, senza accettare liberamente le loro relazioni, che non abbiamo fatte noi, ma sono immanenti alla natura umana: per questo ci edifichiamo da soli questa soffocante galera. Si può immaginare situazione più tragica di quella d'un prigioniero, il quale, con ogni gesto per evadere, fa nascere come per incanto nuovi muri e nuovi sbarramenti?
Contrariamente a tutte le diagnosi della medicina ufficiale, la massa, lo stato collettivo, il Minotauro della venticinquesima ora non nascono dalla costrizione, ma dalla nostra stessa libertà sregolata. Se si realizzerà un giorno il "perfetto e definitivo formicaio" di cui Valéry ebbe la visione profetica, lo dovremo al nostro consenso tacito o formale. Gli storici del futuro vedranno senza dubbio meglio di noi la causa di questa caduta della civiltà moderna, alla luce del patto che l'uomo sarà nuovamente costretto a stringere con l'universo. L'esperienza inedita che noi avremo traversato mostrerà loro che l'origine di questa crisi si trova nel disconoscimento dell'opzione radicale propria della libertà umana: affermarsi o negarsi. Noi abbiamo scelto senz'altro la negazione, l'abbiamo affermata: abbiamo detto sì al no che sollecita senza posa la nostra libertà: e così la libertà si è mutata in perpetua condanna.
È quello che prevedeva il genio di Chateaubriand: "Come sarà la nuova società? Fino ad oggi la società è andata avanti per aggregazioni, per famiglie. Quale aspetto offrirà, quando sarà soltanto più individuale, come tende a divenire? Verosimilmente, la specie umana si farà più grande, ma c'è da temere che l'uomo invece diventi più piccolo, che qualche facoltà tra le maggiori del genio si perda, che l'immaginazione, la poesia, le arti muoiano nei fori d'una società-alveare, in cui ogni individuo sarà ridotto ad un'ape, un ingranaggio d'un macchinario, un atomo nella materia organizzata. Se la religione cristiana si estinguesse, si arriverebbe, attraverso la libertà, alla pietrificazione sociale".
Concludiamo, in breve, il nostro esame. Fino a che l'uomo sarà separato da sé, dagli altri, dal mondo e da Dio, a causa d'una immagine fallace del suo essere, è vano sperare che un sobbalzo della "natura medicatrix" possa guarirci. Ridotta a questa immagine, la libertà vi si rivolterà all'infinito, come un malato nel suo letto, fino a che verrà presa dall'immobilità della morte e consegnata agli imbalsamatori. Irrisoria l'efficacia dei rimedi esterni e degli apparecchi di protesi: non c'è medicamento che possa rinvigorire un organismo in cui le arterie del nutrimento sono sclerotizzate, né occhio elettrico che possa sostituire lo sguardo umano. L'analisi, dunque, si conclude con una constatazione di impotenza...
Rimane un dovere, grande ed esaltante, che ci pone sulle spalle una responsabilità spaventosa quale soltanto la virtù della fortezza ci permette di sostenere: imbrigliare la malattia, tendere cordoni sanitari, preservare dall'epidemia le relazioni che rimangono, salvare gli isolotti di salute non ancora toccati dal contagio. Nulla ci è più necessario oggi che la fortezza d'animo, virtù cardinale che un certo fariseismo cristiano, specializzato nelle effusioni oratorie d'una giustizia e d'una carità più manifestate a parole che vissute, ci ha fatto misconoscere; virtù che consiste essenzialmente, come sottolineava Aristotele con incomparabile acutezza, nell'unione indissolubile della pazienza, dell'audacia e della speranza: "sustinere, aggredi, sperare". Fra questi isolotti parzialmente intatti c'è la famiglia: in essa lo slancio d'una sana libertà ed il voto d'una natura equilibrata si intrecciano così bene che non si possono più distinguere. Nell'intimità familiare, è immediatamente svelata ogni falsa immagine dell'essere che si sovrappone all'essere; i rapporti dell'uomo con sé stesso, con i suoi, con il mondo, si compiono con una impulsività in certo modo riflessa, e la libertà umana raggiunge senza dubbio il suo punto culminante.
Crediamo molto poco alle misure preventive d'ordine politico, fino a che la cosa pubblica sarà retta dalla legge del numero, dei partiti e delle masse? Come potrebbe la libertà essere assicurata dalla sua propria corruzione elevata al massimo esponente? Come potrebbe l'assenza totale di relazioni reali, che costituisce, per così dire, l'anima stessa dei regimi contemporanei, ricostruire le relazioni effettive in grado di garantire alla libertà la sua salvezza? Le misure politiche di protezione dei superstiti isolotti di libertà, implicherebbero evidentemente il rovesciamento totale della politica d'oggi. È ciò che si chiama generalmente, coprendosi gli occhi per non vedere, "la reazione". Ebbene, se per "reazione" si intende l'atto scaturito dalla virtù della fortezza, che consiste nell'affermazione della libertà contro tutte le sue deformazioni patologiche, allora bisogna essere risolutamente reazionari, senza paura dell'infamante etichetta. D'altra parte, è probabilmente il solo modo di essere rivoluzionari che ci rimanga. Resta da dire però che questi termini non hanno più alcun valore oggi, e va meglio non impiegarli per evitare ogni riferimento politico.
Altrettanto poco crediamo alla resistenza propria delle istituzioni sociali. Un tempo, le istituzioni sostenevano lo sforzo degli uomini, mentre oggi è lo sforzo umano che deve sostenerne la barcollante struttura. Era l'istituto del matrimonio a confortare la fedeltà degli sposi ai tempi felici della Principessa di Clèves, mentre ormai tocca agli sposi rimasti fedeli il compito di sostenere la struttura del matrimonio, lacerata dalla libertà immaginaria. Tra poco ognuno di noi si troverà direttamente in causa, e le istituzioni non ci serviranno più a nulla.
Neppure crediamo alla civiltà cosiddetta moderna, che crolla a pezzi. Ma ciò nonostante, sappiamo che le civiltà non muoiono che per far posto ad altre. Un bagaglio prezioso, inestimabile, di infinito valore, è affidato alle generazioni intermediarie: la salvaguardia delle poche leggi semplici, eterne, infinitesimali, invisibili a forza d'esser trasparenti, in cui si concentrano la libertà della natura umana e la natura umana della libertà. Per toccarle con mano, non c'è bisogno di discorsi, di filosofia: basta compiere con naturalezza, con ingenuità, i gesti familiari della vita quotidiana, basta mantenere in vita, vivendole, le relazioni che noi stringiamo con noi stessi, con gli altri, con il mondo, con Dio. Per ristretta che sia in apparenza la nostra sfera d'azione, essa conterrà allora la pienezza della libertà.
Questa la nostra missione. Da noi, esige senza dubbio sacrifici più grandi che un gesto spettacolare. Sono questi gesti semplici che rendono la libertà sacra, la incorporano alla nostra carne e al nostro sangue, la incarnano nell'esistenza che essa ha disertato; la salvano e la guariscono.
In definitiva, dipende da noi, dal nostro coraggio, dal nostro rifiuto di incensare gli idoli, che la libertà sia simboleggiata da David che danza davanti all'Arca, o dallo sguardo pietrificante della Gorgone.