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I Macchiaioli, La poesia del quotidiano

RadiciCristiane.it

Dicembre 2007 - Autore: Michela Gianfranceschi



I Macchiaioli, La poesia del quotidiano

Le opere dei più grandi esponenti della cosiddetta “arte della macchia” sono esposte a Roma,
nelle sale del Chiostro del Bramante fino al 3 febbraio 2008. Adriano Cecioni, Nino Costa, Cristiano Banti, Telemaco Signorini, Vincenzo Cabianca, Raffaello Sernesi, Silvestro Lega, Vito d’Ancona, Odoardo Borrani, Giuseppe Abbati, Giovanni Fattori, sono alcuni degli artisti che, dagli anni Cinquanta del XIX secolo, mutarono drasticamente il corso della pittura italiana.

Il confronto con gli esponenti delle nuove definizioni artistiche provenienti dalla Francia (realismo, impressionismo, ma anche il purismo di Ingres) permette un fondamentale allargamento degli orizzonti della pittura nella Penisola. Gli scambi sono fervidi, così come i viaggi che portano i nostri oltralpe e artisti quali Corot e Ingres in Italia, particolarmente a Firenze, epicentro all’epoca degli scambi culturali.

Da burloni al Caffè… a maestri d’arte

Proprio a Firenze, nel 1845 circa, i pittori non allineati con gli insegnamenti accademici, ormai per molti versi ripetitivi, cominciarono a riunirsi al Caffè Michelangelo. Telemaco Signorini nel 1867 descrisse così quei primi giocosi incontri: «(…) difatto le burle di ogni genere erano all’ordine del giorno, gli stornelli popolari delle campagne Toscane cantati con mirabile armonia (…) e frammezzo alle nubi del fumo dei sigari e le gambe levate sulle tavole, vedevi taluno che schizzava da una parte un gruppo d’amici impegnati in una seria questione, e un altro che, preso da mania di robustezza, alzava con un braccio solo diversi marmi dei
tavolini legati insieme (…)».

Con il passare degli anni gli incontri al Caffè divennero sempre più seri e organizzati; la situazione politica, le condivise suggestioni artistiche concorsero alla formazione di un gruppo di giovani successivamente individuati come i “macchiaioli”. Il termine fu loro attribuito nel 1862 da un articolista della “Gazzetta del Popolo” con significato dispregiativo.

Gli amici pittori nel frattempo definivano comuni intenti poetici e nuove tecniche di stesura del colore. Il nucleo fondante del gruppo nuovo che si stava formando era toscano, ma vi parteciparono fin dall’inizio anche esponenti di altre regioni italiane, quali Cabianca, veronese, Abbati, napoletano d’origine e veneziano di formazione, e Zandomeneghi, veneziano.

“… solidità dei corpi di fronte alla luce”

Nel 1855 l’Esposizione Universale di Parigi eccitò gli animi dei giovani artisti italiani che vi si recarono. Il “Padiglione del Realismo”, allestito da Courbet senza il permesso della giuria e in contrapposizione con i dettami accademici parigini, scandalizzò e aprì una nuova era in cui le mostre private si sarebbero potute opporre all’arte cosiddetta di Stato.

La pittura di paesaggio della Scuola di Barbizon, esposta a Parigi, influenzò sensibilmente
le scelte artistiche dei pittori del Caffè Michelangelo; il toscano Serafino da Tivoli e i
napoletani Giovanni Morelli e Saverio Altamura riportano le loro testimonianze dell’esperienza parigina e condizionano i futuri sviluppi artistici del gruppo.

Diego Martelli, colui che può essere definito il teorico del gruppo dei macchiaioli, racconta
a proposito di Altamura: «Fu lui che in modo sibillino e involuto cominciò a parlare di
Ton gris allora di moda a Parigi, e tutti a bocca aperta ad ascoltarlo prima, ed a seguirlo
poi per la via indicata, aiutandosi con lo specchio nero, che decolorando il variopinto
aspetto della natura permette di afferrare più prontamente la totalità del chiaroscuro».
La pittura diviene, dunque, meno brillante, meno levigata. Si cercano i contrasti, i toni scuri,
i colori semplici, terragni. Si cerca con convinzione di rendere sulla tela la verità del mondo naturale e non un’idea preconcetta.

Si definisce il concetto di macchia, relativo alla stesura del colore che, priva dei contorni, aiutava a definire i volumi plastici in modo sintetico. «Cos’era la macchia? Era la solidità dei corpi di fronte alla luce», scriveva molti anni più tardi il vecchio Fattori, ricordando i primi tempi del gruppo.

Anche i soggetti mutano: non più temi epici nel senso che era appartenuto ai romantici, bensì argomenti più quotidiani, sommessi, come raccontati a voce bassa.

È vivo un forte senso etico che riesce, nella semplicità, a rendere in una luce quasi epica, certo profondamente simbolica, l’azione ricorrente di ogni giorno, il lavoro degli umili, il silente pascolo degli animali,
oppure la riunione di donne in un cortile. Il paesaggio
è un tema ricorrente.

Successivamente anche la poetica virò decisamente e il concetto di realtà si andò definendo sempre più come rappresentazione, attraverso la Forma, dello “spirito” di una società e di un’epoca storica.

La pittura può dunque tornare a essere espressione di una coscienza sociale e non più solo restituzione del vero naturale, “mimesi” del dato oggettivo. Anche la storia del gruppo dei macchiaioli dagli anni Sessanta si articola in più indirizzi, quali le scuole di Castiglioncello (ospitata nella villa messa a disposizione del gruppo da Diego Martelli) e di Piagentina.

Con l’Esposizione Nazionale tenutasi a Firenze nel 1861 la cultura macchiaiola si diffuse rapidamente all’interno delle varie regioni della Penisola, producendo, ad esempio, le importanti scuole di Rivara, in Piemonte, e di Resina, nelle vicinanze di Napoli.

Luminosità della vita quotidiana

L’attuale esposizione romana, seguendo il percorso cronologico, permette di orientarsi facilmente e di avvicinarsi gradualmente al sentimento dei macchiaioli, seguendo i mutamenti in divenire della loro pittura, con i caldi paesaggi di Serafino de Tivoli, le assolate vedute di Vito d’Ancona, le strade e i muri in pietra grezza di Telemaco Signorini. Il paesaggio, sia cittadino sia di campagna, è il filo conduttore. Perfino quando è rappresentato un interno, una finestra aperta ci ricorda gli spazi e il mondo delle cose naturali.

La luce è un elemento essenziale: la luce plasma le forme e permette simbolici giochi, con i volti che restano in ombra, e gli ombrellini delicati che lasciano filtrare solo pochi raggi. La pittura è spesso materia e grumosa; il supporto di legno a volte viene utilizzato in modo che le venature diventino folate di vento sulle figure rappresentate.

I personaggi, soprattutto femminili, sono sorpresi perlopiù in atteggiamento silenzioso e raccolto, immersi nella lettura, in preghiera, o assorti in un’attività quotidiana.

La lettura di Zandomeneghi, il limpido “racconto” delle Cucitrici di camicie rosse di Borrani, L’orazione di Abbati ne sono un esempio. Il dipinto di Banti Le filatrici della Valdelsa sembra richiamare nella grazia delle pose, in una luce onirica che investe le figure di taglio, l’antichità classica.

Una delle opere più liriche è senz’altro L’educazione al lavoro di Lega, in cui la figura centrale, una donna in abito chiaro, è posta di spalle con la luce che la raggiunge da una finestra di fronte aperta sulla campagna. Davanti a lei una bimba accovacciata l’aiuta a raggomitolare la lana. Tutto concorre a creare un’atmosfera poetica ed evocativa: il tavolo in secondo piano con i semplici oggetti sopra, il muto dialogo tra le due figure unite tra loro dall’esile filo di lana, e naturalmente il meraviglioso effetto di controluce che avvolge la donna e la bambina, racchiudendole in una luminosità metafisica.

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